Che cosa ha a che fare la “fede” con la “beatitudine”? Se la fede nasce da un incontro con il Dio cristiano e con suo Figlio, allora il frutto non può essere che la gioia interiore
Per questa prima tappa del nostro viaggio tra le beatitudini, partiremo da quella che viene chiamata la “beatitudine della fede”. Ecco come ci viene riferita nei Vangeli. «E voi chi dite che io sia? Rispose Simon Pietro: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente”. E Gesù: “Beato te, Simone, Figlio di Giona perché né la carne né il sangue te l’hanno rivelato, ma il Padre mio che sta nei cieli”» (Mt 16,15-17). E poi: «Tommaso, perché mi hai veduto, hai creduto: beati quelli che pur non avendo visto, crederanno» (Gv 20,29).
Io penso che, pur nella loro essenzialità, questi pochi versetti siano in grado di farci capire molte cose. In primo luogo, un fatto importantissimo per la nostra vita: Gesù, infatti, ci dice con chiarezza che la fede è un elemento fondamentale per trovare la “beatitudine” e, dunque, una condizione interiore di felicità. Intendiamoci, non quello che si intende generalmente con questa espressione: cioè una assenza completa di sofferenza. No. Quello che Gesù intende dirci, lo capiamo da tutto il contesto evangelico, è che aver fede significa trovare quella gioia interiore che vuol dire senso, riposo e pace in lui. Se così stanno le cose, ciò però significa anche che chi non ha la fede si trova in uno stato nel quale, quantomeno, gli manca qualcosa di importante, anzi di decisivo, per colmare la sua umanità.
In secondo luogo, perché Gesù, in quelle due pur brevi frasi evangeliche, ci fa capire in che cosa consista questa fede e come si giunga ad essa.
Così, egli precisa – ai suoi apostoli allora, ma oggi a ciascuno di noi – come, per averla non sia sufficiente averlo incontrato e neppure avere assistito ai suoi miracoli, neanche ai più strepitosi. Infatti, in altri passi evangelici abbiamo visto che anche di fronte a delle risurrezioni, quanto di più strabiliante si possa immaginare a viste umane, c’era sempre qualcuno che alla fine se ne andava dubbioso, scuotendo il capo.
No, per giungere alla fede, occorre una condizione ulteriore, un passaggio successivo, che si mostra decisivo. Ci riferisce infatti Matteo che egli chiama “beati” coloro che, avendolo visto e incontrato durante la sua vita pubblica, lo hanno “riconosciuto”. E poi, aggiunge Giovanni, coloro che, pur non avendo avuto questa possibilità di vederlo faccia a faccia, di sentirlo parlare e di guardarlo operare, giungeranno comunque e con ancor più merito a capire chi egli è. Dunque, tutta quella sequela di cristiani lunga due millenni che lo hanno “incontrato e riconosciuto” sulla testimonianza di altri e che giunge fino a noi.
Riconoscerlo, dunque: ecco il passaggio fondamentale. Riconoscerlo però in modo preciso, cioè come “il Cristo, il Figlio del Dio vivente”. Sì, perché in realtà ci sono al proposito altre possibilità, ed è lo stesso Vangelo a riferircele nei versetti precedenti a quelli che stiamo esaminando. Quella per esempio di crederlo Giovanni il Battista, oppure Elia, o Geremia oppure un altro profeta ancora. Intendiamoci, non personaggi qualsiasi; al contrario, uomini di grande fama e di profondo spessore religioso che hanno segnato la storia di Israele.
Ma egli è cosa diversa; egli è, appunto, “il Cristo, il Figlio del Dio vivente”. È, cioè, la novità vera. Anzi, è proprio colui che il Battista e quei profeti citati annunciavano. È il Figlio di Dio che si è fatto carne e che è diventato il Cristo, l’Unto, il Messia, il Salvatore.
Riconoscerlo, dunque. È fondamentale, però non facilissimo. Sempre Gesù, infatti, precisa con chiarezza non equivocabile che non sono sufficienti per raggiungere la fede né la carne né il sangue. Non basta la “carne”, cioè quella ragione, quel dono insito nella natura che guida normalmente l’uomo nei suoi giudizi e nelle sue scelte. Ma non è sufficiente neanche quell’altro dono che è l’intuizione, “il sangue”, cioè quella sorta di istinto profondo che porta l’uomo come a “sentire” dove dirigere la propria vita.
No, per raggiungere la fede serve qualcosa in più. Occorre, come dice Gesù, una “rivelazione dall’alto”; un supplemento di luce da parte del “Padre mio che sta nei cieli”.
Ma allora? Siamo ai soliti interrogativi: se è un dono, è solo per alcuni? E, dunque, qual è il nostro ruolo in tutto ciò? Sappiamo bene come abbia risposto nei secoli la Chiesa, chiamata a interpretare la Scrittura. Il soprannaturale colma, completa il naturale. Così, se quest’ultimo non è ben disposto, se è chiuso su se stesso, è difficile che la luce possa penetrare. Soprattutto se il datore di questa luce è uno come il Dio cristiano che rispetta la libertà delle sue creature.
Che rispetta la libertà ma anche che è fedele sempre e in ogni circostanza a ogni uomo che nasca al mondo. Così il suo dono non è frutto di un capriccio che ora c’è e ora non c’è più, che viene rivolto a qualcuno e non ad altri. No. Il “dono” che Dio fa di se stesso a ciascuno di noi è sempre all’opera, è sempre disponibile perché consiste in quel suo amore che egli continuamente ci offre senza misura.
Capiamo allora che il problema vero non sta dalla parte di Dio ma dalla nostra: se siamo indifferenti e chiusi su noi stessi, se non desideriamo di incontrarlo, è difficile che la sua luce riesca a penetrarci e a raggiungerci fin nelle profondità dell’essere.
Così, da quei pochi versetti ci rendiamo conto immediatamente anche di un’altra cosa e cioè che la fede, almeno quella cristiana, non è una sorta di conquista statica. Non è un’idea, una filosofia, una ideologia. No, essa, lo sappiamo bene, è anzitutto rapporto: è incontro. È entrare in una relazione viva, con il “Dio vivente” e con il Figlio suo Gesù. Un rapporto nel quale naturale e soprannaturale si aiutano a vicenda: la ragione e il cuore, certo, sono capaci di indirizzarci verso la fede. Sono in grado di farci fare anche un bel tratto di strada verso di essa, portandoci fin sulla soglia del credere. Soglia per oltrepassare la quale è tuttavia necessario nutrire il desiderio sincero di ricevere quell’ulteriore luce che fa compiere il passo decisivo.
Ecco, è forse proprio questo desiderio di lui, questo credere senza “toccare” e senza “vedere”, questo seguire soprattutto l’amore, che Gesù loda, e che Giovanni ci riferisce, come fonte di una gioia ancor più grande. Una gioia che poi, ogni volta, non potrà che uscire rafforzata da quell’altro dono che Gesù ci ha garantito. Cioè da quell’incontro eucaristico, quello sì, sempre e ovunque possibile.
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«Manca la gioia? Pensa: c’è un ostacolo fra Dio e me. Indovinerai quasi sempre».
(San Josemaría Escrivà de Balaguer, Cammino, n. 662)
IL TIMONE N. 127 – ANNO XV – Novembre 2013 – pag. 56 – 57
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