Le insospettabili radici irrazionali e violente di un movimento spirituale alla moda: punta a conquistare le coscienze e a spingerle verso il nulla
Il presunto pacifismo dei suoi seguaci, alimentato dai tour del Dalai Lama, è smascherato dalle violenze e “pulizie etniche” in vari Paesi asiatici. Il ruolo determinante dei divi di Hollywood nella sua diffusione
Il 4 novembre 2012 le agenzie battono una notizia che passa totalmente inosservata e che la grande stampa semplicemente ignora. José Manuel Barroso, il presidente portoghese della Commissione europea – si legge – lancia un appello alla comunità internazionale perché cessino le violenze tra buddisti e musulmani nel Rakhine. I pochi che la leggono cascano dalle nuvole, e per prima cosa si pongono la domanda: dov’è questo Rakhine? Hanno ragione a stupirsi; nessun organo di informazione, tranne AsiaNews, ha mai raccontato nulla. Il Rakhine è uno Stato della ex Federazione birmana – oggi si chiama Myanmar – in cui è in atto una vera e propria guerra civile che vede contrapporsi la maggioranza buddista di etnia Rakhine e la minoranza musulmana di etnia Rohingya, privata della cittadinanza e oggetto di una diffusa ostilità: gli scontri hanno causato, nel giugno scorso e a fine ottobre, decine e decine di morti.
20.000 vittime tra i Tamil
Pochi giorni dopo, l’ineffabile Dalai Lama, considerato la massima autorità buddista mondiale, trovandosi a Yokohama, in Giappone, per uno dei suoi consueti tour di propaganda (dal 1959 ha lasciato il Tibet per l’esilio), rilancia in modo inconsueto la sua immagine. Con l’umiltà che lo caratterizza afferma serafico: «Io sono benvoluto e ho il sostegno di tutti». Neanche una parola di condanna per le violenze in Birmania, in cui è pesantemente coinvolta una popolazione di fede buddista. Peraltro, se nella vulgata e nell’immaginario collettivo tutto ciò che odora di buddismo è associato alla pace e alla serenità (lo stesso Dalai Lama ha ricevuto il Nobel per la pace nel 1989), in realtà la storia, anche recente, dimostra che non è così. L’esempio più clamoroso, e che ha fatto da battistrada alle violenze in Birmania, è la sanguinaria repressione del governo buddista dello Sri Lanka (già conosciuto come Ceylon, ai piedi dell’India) contro la fiera minoranza tamil (indù e cristiana) dell’isola. Nel maggio 2009, la “soluzione finale”, una vera e propria pulizia etnica, provoca tra i civili tamil 20.000 vittime, secondo una stima prudente. Massacri, fosse comuni, 300.000 profughi. L’opinione pubblica internazionale nemmeno se ne accorge.
Casi isolati? No. Tutta la storia del buddismo, nelle sue varie ramificazioni e nei Paesi in cui si è diffuso, è una storia di violenze, oscure e poco note. Spesso tra gli stessi adepti di quella che, più che una religione o una filosofia di vita, è in realtà una disciplina spirituale, una sorta di “terapia di salvezza” sostanzialmente atea. Nel buddismo, infatti, non c’è un Salvatore, ma nemmeno un Dio creatore amorevole, e tanto meno un “io” personale. La vita è dolore e illusione, occorre liberarsene raggiungendo uno stato di distacco totale, il nulla del Nirvana. È il trionfo del nichilismo, e questo spiega la sua popolarità oggi, in un mondo sempre più lontano da certezze, valori, un destino buono.
Richard Gere testimonial efficace
Il successo delle dottrine buddiste è merito soprattutto dello star system di Hollywood. Il maggior testimonial è il fascinoso attore Richard Gere, ma è in buona compagnia. Sono fan di Budda anche il regista Oliver Stone, autore di vari film sul Vietnam (caduto in mani comuniste grazie anche alla collaborazione dei monaci buddisti), le attrici Goldie Hawn e Sharon Stone, gli attori Keanu Reeves e Orlando Bloom; come pure tanti cantanti, da Sting alle discusse Patty Smith, Alanis Morisette, Courtney Love. Fino al campione di golf sessuomane e fedifrago Tiger Woods. Da noi, il buddista più famoso resta l’ex calciatore Roberto Baggio, legato alla corrente giapponese Soka Gakkai, di cui è felice adepta anche Sabina Guzzanti, comica e paladina dell’antiberlusconismo. Ma l’influenza nefasta della visione del mondo buddista – che dopo le elites sta contagiando vaste schiere di giovani – votata all’annichilimento e alla rovina, contraria alla vita, al cosmo, all’uomo, a Dio, non appare all’evidenza. Ancora relativamente “piccola” nei numeri (350 milioni di aderenti in tutto il mondo, con oltre un milione di monaci), la “religione” buddista sta influenzando la cultura dominante fornendo basi ideologiche e giustificazioni etiche. Un esempio significativo tra tutti: l’ombra inquietante del pensiero buddista sulla pianificazione delle nascite. Il celibato è uno stato desiderabile e la procreazione non è un valore, anzi: è meglio non venire al mondo, dove dominano la sofferenza e il dolore. E anche l’eutanasia è da accogliere, se pone fine a questa sofferenza. Lo stesso Budda storico, Siddharta Gautama, vissuto a cavallo tra il VI e il V secolo avanti Cristo, di cui sappiamo ben poco e che è stato ampiamente mitizzato (gli si attribuiscono almeno 2.500 miracoli e poteri magici), avrebbe affermato che la nostra misera esistenza terrena è segnata da quattro grandi sofferenze: «La nascita è sofferenza, la vecchiaia è sofferenza, la malattia è sofferenza, la morte è sofferenza ». Nessuna speranza, nessun riscatto, solo l’immersione nel nulla. La stessa reincarnazione è in realtà una punizione.
«Azione del demonio», «Maledetta dottrina»
Chi ha capito e giudicato con molta lucidità l’essenza del buddismo, sono stati i primi missionari cristiani che l’hanno incontrato. Il celebratissimo Matteo Ricci (1552-1610) avversò il buddismo e ne aveva il massimo sospetto, arrivando a dire che «la sua genesi va cercata in una azione del demonio ». Prima ancora san Francesco Saverio (1506-1552), evangelizzatore dell’Asia per eccellenza, si lamentava dei monaci buddisti sostenendo che con i bonzi le discussioni non erano sempre pacifiche e cortesi e denunciando i loro inganni. Il beato Costanzo da Bovalino (1572-1622), che in Giappone pagò con il martirio la colpa di aver battezzato 800 persone, sul rogo ebbe la forza di urlare: «Uditemi tutti voi, pagani: non esiste altra via che conduce alla salvezza al di fuori della fede e della santa legge di Gesù Cristo. Tutte le sette dei bonzi sono vane, empie e ingannatrici e conducono all’eterna perdizione». Il gesuita padre Giovanni Maria Leria (1599-1665) definisce senza mezzi termini il buddismo «maledetta dottrina », «mattezza che corrompe i popoli» e li rende avvezzi a insegnamenti che sono «brutte laidezze».
Giudizi e termini, quelli appena riferiti, che possono apparire esagerati alle nostre tolleranti orecchie di moderni, educati dai mass media a una considerazione più che benevola del buddismo. Quasi fosse protetto da un’aura di impeccabilità impermeabile a qualsiasi critica. In realtà non è così. E lo scopriamo leggendo il documentatissimo e coraggioso libro-inchiesta di Roberto Dal Bosco Contro il buddismo. Il volto oscuro di una dottrina arcana. Dove l’autore enumera e documenta l’esistenza, nel corso della storia, di episodi di cannibalismo, traffico di cadaveri, suicidio rituale, pedofilia, stregoneria, guerre tra demoni e oracoli, violenze e perversioni sessuali. Non mancano precisi riferimenti ai rapporti tra la cultura buddista e i deliri nazionalsocialisti ieri, la destra radicale e pagana oggi.
Argomenti di cui non si parla. E forse anche per questo il buddismo gode di buona fama.
Ricorda
«A qualsiasi latitudine lo si voglia guardare, il buddismo è un culto del nulla, e quindi – non bisogna essere cristiani per riconoscerlo – un culto del male. E se il fine di un culto è il male, la via rituale per arrivarci, oltre al delitto, è la magia nera, il commercio con i poteri dell’inferno, e cioè quello che un tempo si chiamava, con una parola che adesso quasi fa sorridere, “stregoneria”. Il buddismo è stregoneria, stregoneria totale».
(Roberto Dal Bosco, Contro il buddismo. Il volto oscuro di una dottrina arcana, Fede e Cultura, 2012, p. 40).
Per saperne di più…
Roberto Dal Bosco, Contro il buddismo. Il volto oscuro di una dottrina arcana, Fede e Cultura, 2012.
IL TIMONE N. 118 – ANNO XIV – Dicembre 2012 – pag. 52 – 53
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