Bisognerebbe pubblicare oggi le menzogne scritte ieri. Ci sarebbero molte sorprese. Ne parla Lucio Lami, un giornalista “fuori dal coro”.
«Dicevo quel che volevo credere, chiudevo volutamente gli occhi di fronte alla realtà dei fatti, per iIIudermi con le fantasie.
Il nostro errore è stato applaudire alla violenza rivoluzionaria pensando che servisse a liberare l’uomo. Ma chiudevamo gli occhi e il cuore alle invocazioni di quelli che erano oppressi dalla rivoluzione».
Questo mea culpa lo ha scritto Jean Lacouture, già fan dei vietcong, anni dopo aver constatato il fallimento della «liberazione» di Hanoi. Ma Lacouture è un giornalista francese; e in Italia? C’è stato da noi qualcuno, tra gli intellettuali e i cronisti che in gran copia negli anni Settanta salutavano le truppe del Nord Vietnam come la salvezza dall’imperialismo americano, che abbia compiuto autocritica? Chi – anche tra i cattolici, che all’epoca marciavano volentieri sul sentiero di Ho Chi Minh – ha ammesso di aver sbagliato? Lucio Lami, 68 anni, inviato di guerra fin dalla fondazione e per 25 anni a il Giornale di Indro Montanelli, c’era. E ce lo racconta.
Lami, chi erano i giornalisti italiani nel coro?
«Inutile far nomi: l’allineamento toccava il 90% dell’informazione. Del resto, sono tornato nel Sud-est asiatico agli inizi degli anni ’80 per “rivisitare” Vietnam, Cambogia e Laos e mi sono trovato sulla famosa strada dove Jane Fonda e uno stuolo di intellettuali erano andati a perorare la causa dei nord-vietnamiti: il fior fiore dell’intellighentsia occidentale di sinistra, ormai un po’ scossa da qualche dubbio dato che i vietnamiti stavano usando i gas in Cambogia (dove peraltro c’erano i khmer rossi: una guerra in famiglia, insomma…), sfilava innalzando cartelli patetici: “Lasciate che aiutiamo il vostro popolo”… E oltre il confine i vietcong sghignazzavano».
Il curioso è che molti di quanti osannavano i guerriglieri poi sono diventati pacifisti assoluti. Come Tiziano Terzani, il giornalista recentemente scomparso. È vero che Terzani fece autocritica, soprattutto sulle stragi compiute dai khmer rossi in Cambogia; però di lì ad acquistare fama di «guru» della nonviolenza…
«Proprio con Terzani passai notti di affascinante discussione in Cambogia; all’epoca era innamorato sia dei vietcong che dei khmer rossi. Ma anche le mode culturali giocano la loro parte e io ormai non mi scandalizzo nemmeno più. L’unica cosa che mi infastidisce è quando Giorgio Bocca sostiene che solo gli stupidi non cambiano idea: una bella formula per sostenere tutti i voltagabbana. Come dire che la verità non esiste».
Poi ci furono le grandi eccezioni. Una tra tutte: Egisto Corradi. L’unico giornalista a mettere in guardia su ciò che poteva accadere in Estremo Oriente.
«E io, più tardi, fui l’unico a raccontare quel che era accaduto davvero… Perché uno dei trucchi del mestiere è il seguente: quando i fatti sono sgradevoli da raccontare, non si va neanche a vederli. Così quando andai nell’Afghanistan occupato dai russi, ero l’unico ad affrontare un viaggio così e a raccontare tanto a lungo il “Vietnam dei russi”, Tutti quelli che erano accorsi al seguito egli americani in Indocina, invece, trovarono una certa disappetenza per l’argomento. Una delle forme più striscianti di para-censura è del resto la “distrazione”. Malattia che esiste anche all’estero, magari in forma meno acuta; perché altrove non ‘è stata quell’uniformità culturale e il conformismo penoso che sono stati in vigore da noi dagli anni Sessanta alla fine degli anni Ottanta».
Qualcuno si è poi ricreduto?
I migliori. Uno dei più noti fu appunto Lacouture, che scrisse un libro sul Vietnam per fare mea culpa. In Italia qualcun altro, per esempio Giuliano Zincone, ammise di aver visto lucciole per lanterne. Però è stato un ripensamento che in pubblico hanno potuto fare solo quelli di sinistra. Da noi le “revisioni” non solo sono più lente, ma possono farle soltanto gli “autorizzati”. Vige infatti questa legge: se sei un progressista pentito, gli ex compagni ti rimbrottano un po’, però trovi subito il grande editore. Invece chi come noi aveva sempre detto (e con trent’anni d’anticipo) che cos’era il comunismo nella versione asiatica, a quelli non bisogna dare mai ragione. Persino a padre Piero Gheddo non è stato riconosciuto il merito di aver raccontato ciò che vedeva. Insom-ma: a loro è concesso di cambiar idea, a noi non è permesso di averla conservata».
Diciamo però che (nel caso Vietnam) il conformismo ha interessato anche i cattolici: vedi gli intoccabili padre Turoldo o padre Balducci, il quale in ceVietnam collera di Dio» invitava la Chiesa ad imparare dai vietcong, che hanno combattuto contro il Golia imperialista…
«I cattolici si sono accodati per motivi politici, ma anche ideali. Andarono dietro all’onda perché erano rimasti affascinati dal vedere i punti di contatto tra le teorie del marxismo e la fratellanza cristiana, così da confondere spesso la lotta per i poveri con il senso di giustizia insito nel Vangelo. Era un pasticcio enorme: l’egualitarismo comunista non è paragonabile a quello praticato dai primi cristiani. E infatti l’abbinamento portò a risultati osceni: si leggeva il Vangelo in chiave materialista, il ricco veniva evangelicamente maledetto, e così via».
C’era fors’anche dell’anti-americanismo cattolico?
«Si sentiva la solita concorrenza col mondo protestante. Ma soprattutto c’era un anti-americarismo di provenienza marxista, perché gli Usa erano l’impero più capitalista del mondo e quindi incarnavano in se stessi il regno del male e del peccato. Si trattava di interpretazioni intellettuali, e l’astrattezza è sempre stata la tragica tentazione del clero. Così l’appoggio dato dalla Chiesa ai diseredati dell’America latina finiva per mescolarsi all’aiuto alle rivoluzioni, fino ad arrivare al controsenso dei preti che imbracciavano il mitra».
Dossier: Vietnam 1975-2005: Chiesa e popolo sul Calvario
IL TIMONE – N. 41 – ANNO VII – Marzo 2005 pag. 42 – 43