Riscopriamo grazie al Vangelo l’importanza dei piccoli gesti quotidiani.
Fede e ragione non sono mai state in contrasto poiché entrambe create e donate da Dio, Essere perfettissimo privo di ogni contraddizione. Laddove l’uomo non arriva con la propria ragione alla conoscenza della Verità, la fede interviene, illuminando l’anima e portandola alle vette della conoscenza.
Un esempio concreto di come l’alleanza tra fede e ragione possa produrre frutti copiosi è sicuramente quello del primo papa francese della storia, il coltissimo Silvestro II.
Autentico scienziato, con i suoi studi, invenzioni e ricerche pone le basi per la scienza moderna.
Il genio e la vastissima cultura che spazia in ogni campo del sapere caratterizzano Gerberto d’Aurillac quale massima personalità del decimo secolo. Dotto filosofo, eppure di strabiliante competenza nella matematica, nella linguistica, nella medicina, nell’astronomia e nella sperimentazione scientifica. Viene in contatto con i numeri arabi e li assimila, diventando pioniere nell’uso dell’abaco e sviluppando le operazioni aritmetiche. Persino nella musica, le sue conoscenze gli permettono di diventare il massimo esperto di organi del suo tempo, tanto da costruirne un esemplare. Esperto di geometria e di astronomia, introduce l’astrolabio e, soprattutto, progetta e realizza globi celesti, considerati veri e propri anticipatori dei planetari moderni, che permettono lo studio dei movimenti degli astri. Grande impressione suscita l’invenzione di un apparecchio per la misurazione dell’ora durante la notte, quando l’unico strumento è ancora la meridiana.
Gerberto è anche un fine letterato. Grande retore, è maestro di dialettica e incoraggia lo studio oltre che del trivio (grammatica, dialettica e retorica) anche del quadrivio (aritmetica, geometria, musica e astronomia).
E’ anche uno dei pochissimi stenografi del Medioevo.
Un uomo di così grande erudizione causa invidia, fomentando sospetti infondati sulla reale provenienza del suo sapere. Nasce la leggenda, ripresa poi dai protestanti in chiave polemica anticattolica, di un presunto patto di Silvestro-mago con il diavolo per ottenere sia il dono della conoscenza che del pontificato. Questa leggenda, probabilmente diffusa da Ademaro di Chabannes e Guglielmo di Malmesbury, è arrivata persino ad essere pubblicata nel Liber pontificalis. La sua infondatezza è stata successivamente confermata nel 1648, quando il canonico Rasponi esegue una ricognizione sul cadavere di Silvestro: il corpo è trovato intatto per dissolversi qualche secondo dopo al contatto con l’aria: la scoperta smentisce l’ipotesi del patto satanico che prevedeva la distruzione delle spoglie di Silvestro subito dopo il trapasso. Uno strascico di questa leggenda vuole che all’imminenza della morte di un papa, la tomba di Silvestro trasudi e si odano sinistri scricchiolii di ossa.
La data di nascita di Gerberto è incerta, comunque compresa tra il 938 e il 950. E’ monaco benedettino nel monastero di Saint Girand ad Aurillac. Diventa discepolo del vescovo di Vich, Attone, che lo inizia allo studio della matematica. Nell’abbazia di Santa Maria di Ripoll entra in contatto con la lingua araba.
Giunge a Roma per la prima volta al seguito di Attone e del conte Borrell per chiedere di elevare a sede metropolitana Vich.
Papa Giovanni XIII (965-972) ne apprezza le qualità intellettuali tanto da segnalarlo all’imperatore Ottone I (962-973). Gerberto prosegue i suoi studi a Reims. La sua fama cresce quando a Ravenna, alla presenza di Ottone II (973-983), sostiene una disputa con il maestro Otric della scuola della cattedrale di Magdeburgo. Ottone è talmente impressionato dall’abilità di Gerberto che decide di assegnargli l’abbazia di Bobbio nel 980.
Ma in questa sede Gerberto rimarrà per poco. Ritorna ad insegnare a Reims, dove segue la vita politica intervenendo efficacemente per fare eleggere Ugo Capeto, prodromo della dinastia regale dei capetingi, al trono di Francia a discapito del legittimo erede Carlo di Lorena.
Nel giugno 991, Gerberto è nominato vescovo titolare di Reims da Ugo Capeto durante il Concilio a Saint-Basle de Verzy senza l’autorizzazione del papa Giovanni XV (985-996), in quanto, secondo la tesi sostenuta dal vescovo di Orléans, Arnoul, e appoggiata dallo stesso Gerberto, non si ritiene necessaria l’approvazione papale per la nomina di un ecclesiastico. Queste posizioni decisamente gallicane Gerberto le ripudierà quando il 2 aprile 999 sarà eletto pontefice, affermandosi come strenuo difensore dell’autorità pontificia.
L’imperatore Ottone III (996-1002) ha grande stima di Gerberto, tanto da “imporlo” già nel 998 all’arcivescovado di Ravenna e prodigandosi poi per la sua elezione al soglio di Pietro.
Il nome scelto da Gerberto, Silvestro II, è una chiara indicazione dell’indirizzo che darà al suo pontificato: stretto accordo con l’imperatore Ottone III per affermare il cristianesimo sul modello del Sacro Romano Impero, così come il santo predecessore Silvestro I (314-335) agì in connubio con l’Imperatore Costantino.
Nonostante questa stretta collaborazione, Silvestro II ha il merito di conservare l’indipendenza della Sede Apostolica dalle ingerenze eccessive a cui una forte personalità come quella di Ottone III non rinuncia facilmente.
Il Papa persegue una decisa riforma dei costumi ecclesiastici, combattendo innanzitutto la piaga della simonia, contrastando il nepotismo e imponendo il celibato agli ecclesiastici. Nonostante queste rigide misure, egli si rivela un pastore assai vicino ai fedeli. Dà grandissimo impulso alla vita religiosa e culturale nell’est dell’Europa, fornendo un respiro europeo al suo pontificato. Fonda la prima circoscrizione vescovile ungherese di Esztergom e in Polonia fonda la diocesi di Gniezno che genererà, mille anni più tardi, l’illustre figlio Karol Woytila.
Una serie di ribellioni del popolo romano, che mal sopportano la presenza dell’imperatore straniero, costringono Ottone, e insieme a lui Silvestro, a lasciare la città. Durante l’esilio, Ottone muore a soli 21 anni, lasciando il Papa solo nella sua opera.
Ritornato a Roma, Silvestro II deve accettare la situazione del controllo della città assunto dal signorotto Giovanni Crescenzio, al quale si deve sottomettere per poter svolgere il suo ministero, sempre più isolato, nel Laterano.
La morte sopraggiunge il 12 maggio 1003.
Da qualche decennio, uno spettro si aggira per la Chiesa. E’ l’infatuazione per un cristianesimo straccione, supremo nemico anche del più piccolo fremito che porti rispetto alla forma. Una pratica religiosa che si gloria di attingere solo alla sostanza: senza tenere in conto che la sostanza senza forma non ha nulla di cristiano. Da qui, l’esegesi del brutto come realizzazione del Vangelo i cui frutti non sono tardati a maturare. Messe ridotte a mediocri spettacoli, preti travestiti da assistenti sociali, fedeli recalcitranti a qualsiasi reverenza per Dio e per il prossimo. In altre parole, Messe che non sono più Messe, preti che non sono più preti, fedeli che non sono più fedeli. Persa la forma, si è persa anche la sostanza, in nome di una borghesissima rivolta antiborghese.
Eppure, nel Vangelo non si trova una riga che esalti il brutto, l’informe o il ripugnante per se stessi. Gesù ama i lebbrosi, gli storpi, i peccatori: ma, proprio per questo, li guarisce e li salva. La sua vita, il suo insegnamento, i gesti più veri di chi gli sta intorno sono uno spreco di bellezza. Sono parto della devozione spirituale al mistero di tutto ciò che esiste. Della capacità di prestare l’identica misura di attenzione alle cose del visibile e dell’invisibile. Per questo, nelle storie della redenzione hanno tanta importanza gli eventi grandiosi e le cose minime, i gesti regali e le piccole attenzioni quotidiane.
Qualunque cosa facciano, i personaggi del Vangelo sono dei gentiluomini vocati alle buone maniere, le quali, dice San Francesco di Sales, sono il principio della santità. Forse non è un insegnamento di moda, ma per sfuggire la tentazione del comodo e borghesissimo cristianesimo straccione, vale la pena di ricominciare da qui: dai tratti gentili degli uomini e delle donne vissuti attorno a Gesù.
Tra gli esempi più luminosi vi è la cena di Betania, nella casa di Simone il lebbroso. Quella sera, racconta Matteo, una donna si avvicina al Salvatore “con un vaso di alabastro, colmo d’unguento prezioso e lo sparse sul capo di lui ch’era a tavola”. Questa donna ricorda ai cristiani il dovere di essere splendidi nel culto di Dio. Lusso, maestà e bellezza non sono mai bastevoli. E contro coloro che biasimano la ricchezza dei paramenti, degli oggetti sacri, delle opere d’arte, si innalza la lode di Gesù: «Ella ha fatto una buona azione verso di me». La liturgia, come la poesia, è splendore gratuito, “spreco” delicato più necessario dell’utile. Non a caso, nella versione di Giovanni, il discepolo scandalizzato è Giuda Iscariota. Il traditore, che preferisce i poveri a Dio, è il paradigma del filantropo. Nulla da spartire con la grazia: quella che viene dal cielo e quella che bisogna usare al prossimo.
Lungo questo sentiero delizioso e cortese del riconoscimento della maestà divina, si erano già incamminati i magi poco dopo la nascita di Gesù. E vi si inoltreranno Giuseppe di Arimatea e Nicodemo, con circa cento libbre di mistura di mirra e aloe da spargere sul corpo del Maestro dopo la sua morte.
Solo il riconoscimento del primato di Dio e delle attenzioni che gli sono dovute permette di tributarne di grandi agli uomini. Questa certezza permette al buon Samaritano di rovesciare radicalmente la prospettiva di Giuda. E’ il suo amore per Dio a fermarlo lungo la strada in soccorso dello sconosciuto ferito dai ladri. E con quanta delicatezza si appressa al suo prossimo. “Ne fasciò le piaghe versandovi sopra olio e vino; e, collocatolo sulla propria cavalcatura, lo condusse all’albergo e si prese cura di lui. Il giorno dopo, tratti fuori due denari li diede all’oste e gli disse: «Prenditi cura di lui, e quanto spenderai di più te lo pagherò al mio ritorno»”.
E’ la stessa attenzione che Maria presta al Signore venuto a farle visita in casa sua. Gli siede ai piedi e sta ad ascoltare la sua parola: l’omaggio più grande che si possa tributare a un ospite. E a Marta, la sorella che si lamenta di essere lasciata sola a servire i commensali, Gesù risponde: «Marta, Marta, tu t’affanni e t’inquieti per troppe cose. Eppure una sola cosa è necessaria. Maria ha scelto la parte migliore, che non le sarà tolta».
Riguardo al comportamento in pubblico, Matteo offre una sintesi ferrea nel paragrafo dedicato al digiuno: “Quando digiunate, non vogliate imitare gli ipocriti, che prendono un’aria malinconica e sfigurano la faccia per far vedere agli uomini che digiunano. In verità i dico che han già ricevuto la loro ricompensa. Tu invece quando digiuni, ungiti il capo e lavati la faccia, affinché non agli uomini tu appaia come uno che digiuni, ma al Padre tuo, che è nel segreto; ed il Padre tuo, che vede nel segreto, ti darà la ricompensa”.
Non vi è precetto più alto che scandisca il tempo dell’eleganza e della grazia da tributare alle cose di Dio e a quelle del secolo. La sua pratica è un atteggiamento morale che si chiama sprezzatura. Equilibrio tra rigore e levità che si traduce in rispetto per il soffio divino nascosto anche nella più piccola scaglia di creato. Che si nutre della cerimonia con cui ogni essere si presenta al mondo e la celebra nonostante tutto e tutti. Devota al sovrano mistero dell’essere, la sprezzatura è una gentile, briosa impenetrabilità all’altrui violenza. Gioiosa noncuranza del male e del brutto che sgorgano troppo in basso per urtarla.
E’ sovrana sprezzatura l’amore con cui Maria accetta la morte del Figlio inchiodato alla croce. Dolorosa e gioiosa comprensione del mistero più grande, radicata nell’adesione all’annuncio dell’angelo Gabriele: “Ecco l’ancella del Signore, si faccia di me secondo la tua parola”. Il racconto dell’annunciazione può essere letto come un trattato di buone maniere, un capolavoro della cerimonia che non ha uguali. Non vi si trova una parola fuori posto. Non vi è un fremito che tradisca cedimento. Non un’ombra di rinuncia. E si sta decidendo il destino dell’universo.
Se ancora si potesse dubitare dell’efficacia delle buone maniere, conviene spulciare gli “Apophtegmata Patrum” là dove si spiega come evitare le trappole del demonio. Incapace di conoscere i pensieri dell’uomo perché di altra natura, il principe del male li può indovinare osservando i movimenti del suo corpo. Di qui l’importanza data in ogni tempo al comportamento esteriore e la venerazione per chi lo porti alla perfezione.
E a beneficio di chi pensa che il cristiano debba orripilare il secolo va ricordato il profilo mondano del santo tracciato dal cardinale Bona: “Pronto all’omaggio, tacito agli affronti, verecondo verso gli onori offerti, difficile a indignarsi, affabile, trattabile, lieto e moderatamente giocondo, socievole senza disprezzo, grato, benefico, attraente”.
Il cardinale Bona non usciva dallo studio di qualche letterato civettuolo. Veniva dalla trappa.
RICORDA
“Mentre Gesù si trovava a Betania, in casa di Simone il lebbroso, gli si avvicinò una donna con un vaso di alabastro, colmo d’unguento prezioso e lo sparse sul capo di lui ch’era a tavola. I discepoli, visto ciò, furono indignati e dissero: «A che tale sciupio? Quest’unguento si poteva venderlo caro e darne il ricavo ai poveri». Gesù, essendosene accorto, disse loro: «Perché date noia a questa donna? Ella ha fatto una buona azione verso di me. Infatti voi avete sempre i poveri con voi, ma non sempre avete me. Costei, spargendo quest’unguento sul mio corpo, lo ha fatto per la mia sepoltura. Io vi dico in verità che dovunque sarà predicato questo vangelo, sarà pur raccontato a sua memoria ciò ch’ella ha fatto»” (Matteo, 26. 6-13).
IL TIMONE – N. 30 – ANNO VI – Febbraio 2004 – pag. 58 – 59