Per la beatificazione di papa Giovanni Paolo II, a Roma è convenuta una folla immensa. Un popolo unito dalla fede. Che ha pregato, gioito, ringraziato il Signore. Guidato dalle stupende parole pronunciate da papa Ratzinger
Quando Benedetto XVI ha pronunciato le parole di rito in latino, e lentamente è stato scoperto l’arazzo appeso alla loggia centrale della Basilica di San Pietro, raffigurante l’effigie del nuovo beato, l’applauso dei fedeli è iniziato e per rapidissimo contagio si è propagato per tutta la piazza, per tutta via della Conciliazione, per le vie limitrofe e nelle altre piazze romane dove altri fedeli seguivano la cerimonia sui maxischermi. È durato quasi dieci minuti. Un applauso vero, sincero, commosso.
A sei anni di distanza dalla morte di Giovanni Paolo II, c’è un intero popolo che lo ricorda, lo venera, non ha dubbi sulla sua santità. E ciò che è avvenuto a Roma il 1° maggio attesta come questa venerazione per Papa Wojtyła non possa essere ridotta a fenomeno mediatico, come vorrebbero i critici del Pontefice polacco. È stato un grande evento di popolo, simile a quello accaduto nel 1954, in occasione della canonizzazione di Pio X. Bisognava esserci tra quella gente che si è messa pazientemente in fila alle tre di notte e che è rimasta fino alla mattina stipata in fila, senza potersi muovere, senza poter andare al bagno. Un popolo di famiglie, con molti bambini, anche piccolissimi. Tanti, com’era prevedibile, i polacchi: contadini mescolati ai manager, anziane suore mescolate ai teenager. Tanti anche i francesi. Tanti, tantissimi, gli italiani.
Visibilmente emozionato e particolarmente felice è apparso Benedetto XVI, il principale collaboratore di Wojtyła, il Papa che ne ha raccolto la non facile eredità e che ha voluto accorciare i tempi del processo canonico arrivando alla beatificazione del predecessore, un evento che non ha precedenti negli ultimi mille anni di storia della Chiesa cattolica. «Il giorno atteso è arrivato, è arrivato presto, perché così è piaciuto al Signore: Giovanni Paolo II è beato!», ha detto il Papa nell’omelia.
Ratzinger, da decano del collegio cardinalizio, aveva celebrato i funerali di Wojtyła. «Già in quel giorno – ha ricordato – noi sentivamo aleggiare il profumo della sua santità, e il popolo di Dio ha manifestato in molti modi la sua venerazione per lui. Per questo ho voluto che, nel doveroso rispetto della normativa della Chiesa, la sua causa di beatificazione potesse procedere con discreta celerità».
Papa Ratzinger ha parlato innanzitutto della testimonianza di fede del predecessore: «La beatitudine eterna di Giovanni Paolo II, che oggi la Chiesa ha la gioia di proclamare, sta tutta dentro queste parole di Cristo: “Beato sei tu, Simone” e “Beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!”. La beatitudine della fede, che anche Giovanni Paolo II ha ricevuto in dono da Dio Padre, per l’edificazione della Chiesa di Cristo».
Benedetto XVI ha quindi ricordato come Papa Wojtyła abbia sottolineato «con forza » durante i suoi quasi 27 anni di pontificato «la vocazione universale alla misura alta della vita cristiana, alla santità, come afferma la Costituzione conciliare Lumen gentium sulla Chiesa». Quindi ha citato le parole che nel testamento Giovanni Paolo II ha dedicato al Concilio: «Desidero ancora una volta esprimere gratitudine allo Spirito Santo per il grande dono del Concilio Vaticano II, al quale insieme con l’intera Chiesa – e soprattutto con l’intero episcopato – mi sento debitore. Sono convinto che ancora a lungo sarà dato alle nuove generazioni di attingere alle ricchezze che questo Concilio del XX secolo ci ha elargito. Come vescovo che ha partecipato all’evento conciliare dal primo all’ultimo giorno, desidero affidare questo grande patrimonio a tutti coloro che sono e saranno in futuro chiamati a realizzarlo. Per parte mia ringrazio l’eterno Pastore che mi ha permesso di servire questa grandissima causa nel corso di tutti gli anni del mio pontificato».
Qual è stata la “causa”, si è chiesto Benedetto XVI? È la stessa che Giovanni Paolo II «ha enunciato nella sua prima messa solenne in Piazza San Pietro, con le memorabili parole: “Non abbiate paura! Aprite, anzi, spalancate le porte a Cristo!”. Quello che il neo-eletto Papa chiedeva a tutti, egli stesso lo ha fatto per primo: ha aperto a Cristo la società, la cultura, i sistemi politici ed economici, invertendo con la forza di un gigante – forza che gli veniva da Dio – una tendenza che poteva sembrare irreversibile».
Con queste parole il Papa ha voluto descrivere la ventata di novità che rappresentò, nel 1978, l’elezione di un vescovo di Roma proveniente dall’Est, da Oltrecortina. In un momento in cui la Chiesa in Italia e nell’Europa occidentale poteva sembrare talvolta rassegnata alla secolarizzazione e ripiegata su se stessa, ecco l’irrompere di Giovanni Paolo II il quale, ha spiegato il suo successore, ha aiutato «i cristiani di tutto il mondo a non avere paura di dirsi cristiani, di appartenere alla Chiesa, di parlare del Vangelo. In una parola: ci ha aiutato a non avere paura della verità, perché la verità è garanzia di libertà». «Ci ha ridato la forza – ha continuato Benedetto XVI – di credere in Cristo, perché Cristo è Redemptor hominis, Redentore dell’uomo: il tema della sua prima enciclica e il filo conduttore di tutte le altre. Karol Wojtyła salì al soglio di Pietro portando con sé la sua profonda riflessione sul confronto tra il marxismo e il cristianesimo, incentrato sull’uomo. Il suo messaggio è stato questo: l’uomo è la via della Chiesa, e Cristo è la via dell’uomo. Con questo messaggio, che è la grande eredità del Concilio Vaticano II e del suo “timoniere” il servo di Dio Papa Paolo VI, Giovanni Paolo II ha guidato il popolo di Dio a varcare la soglia del Terzo Millennio».
Ancora una volta, Papa Ratzinger aiuta i cattolici a leggere la storia della Chiesa nella sostanziale continuità e fedeltà, secondo quell’ermeneutica che fin dal dicembre 2005 egli ha voluto indicare come quella corretta per leggere il Concilio. E non è un caso che nell’omelia abbia voluto presentare Giovanni Paolo II come l’attuatore del Vaticano II, citando anche il suo “timoniere”, Paolo VI. Ratzinger ha poi ricordato come Wojtyła abbia dato al cristianesimo «un rinnovato orientamento al futuro, il futuro di Dio, trascendente rispetto alla storia, ma che pure incide sulla storia. Quella carica di speranza che era stata ceduta in qualche modo al marxismo e all’ideologia del progresso, egli l’ha legittimamente rivendicata al cristianesimo, restituendole la fisionomia autentica della speranza, da vivere nella storia con uno spirito di “avvento”, in un’esistenza personale e comunitaria orientata a Cristo, pienezza dell’uomo e compimento delle sue attese di giustizia e di pace». Con questa lettura del pontificato wojtyliano, Benedetto XVI respinge le interpretazioni politiche o geo-politiche sul predecessore, e riconosce come Wojtyła abbia saputo ridare ai cristiani quella carica di speranza che talvolta anche tra gli stessi cristiani era ritenuta ormai appannaggio di certe ideologie.
Ma il passaggio più commovente dell’omelia della messa di beatificazione è stato quello finale, quando Benedetto XVI ha dedicato un suo ricordo al predecessore. «Vorrei infine rendere grazie a Dio anche per la personale esperienza che mi ha concesso, di collaborare a lungo con il beato Papa Giovanni Paolo II. Già prima avevo avuto modo di conoscerlo e di stimarlo, ma dal 1982, quando mi chiamò a Roma come Prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, per 23 anni ho potuto stargli vicino e venerare sempre più la sua persona. Il mio servizio è stato sostenuto dalla sua profondità spirituale, dalla ricchezza delle sue intuizioni». «L’esempio della sua preghiera – ha continuato – mi ha sempre colpito ed edificato: egli si immergeva nell’incontro con Dio, pur in mezzo alle molteplici incombenze del suo ministero. E poi la sua testimonianza nella sofferenza: il Signore lo ha spogliato pian piano di tutto, ma egli è rimasto sempre una “roccia”, come Cristo lo ha voluto. La sua profonda umiltà, radicata nell’intima unione con Cristo, gli ha permesso di continuare a guidare la Chiesa e a dare al mondo un messaggio ancora più eloquente proprio nel tempo in cui le forze fisiche gli venivano meno. Così egli ha realizzato in modo straordinario la vocazione di ogni sacerdote e vescovo: diventare un tutt’uno con quel Gesù, che quotidianamente riceve e offre nell’eucaristia».
IL TIMONE N. 104 – ANNO XIII – Giugno 2011 – pag. 16 – 17