Il 12 dicembre scorso ricorreva l’anniversario dell’ultima apparizione della Madonna di Guadalupe, che si manifestò all’indio Juan Diego dal 9 al 12 dicembre 1531, e pertanto rileggevo i testi dei messaggi di questo straordinario evento, riconosciuto ufficialmente dalla Chiesa, quando sono stato colpito da un particolare. Conoscevo bene la storia di questa apparizione, che rivoluzionò la mentalità di allora, tendente spesso a non attribuire la presenza dell’anima nei nativi del nuovo mondo, mentre la Vergine non solo scelse come destinatario dei messaggi un indio, ma Ella stessa apparve come Vergine morenita.
Sapevo del segno che la Madonna aveva lasciato su richiesta del vescovo locale, la famosissima tilma di Guadalupe, sulla quale Ella aveva impresso in modo miracoloso la sua meravigliosa icona. Sapevo di tutti gli studi scientifici che erano stati eseguiti su questo misterioso oggetto, e dei relativi straordinari risultati riguardo a tale immagine risultata acheropita, non dipinta da mano umana, quasi fluttuante sopra il tessuto, e con riflessi difrattometrici che regalano iridescenze simili a quelle che la natura disegna sulle ali delle farfalle. Sapevo che nelle pupille della Vergine, ingrandite digitalmente 2.500 volte, era conservata l’intera scena della presentazione della tilma al vescovo Zumarraga, impressa come se l’occhio fosse stato vivo e seguendo precise leggi di ottica fisiologica scoperte soltanto nel secolo XIX: i tre riflessi di Purkinje-Sanson che si formano sull’iride e sul cristallino di un occhio vivo. Sapevo che la temperatura “corporea” dell’immagine sulla tilma era quella umana di 36,6 gradi, rilevabile solo sull’impronta del corpo di Maria e non attorno, e che un medico messicano aveva rilevato con lo stetoscopio perfino le 115 pulsazioni al minuto del battito cardiaco del bimbo che la Vergine portava nel grembo.
Ma non era tutto questo che mi aveva colpito, bensì una semplice frase che durante le apparizioni la Vergine disse a Juan Diego, in risposta alla sua ritrosia. A seguito dell’iniziale scetticismo del vescovo locale, Juan si era infatti lamentato con la Vergine in questo modo: «Ti prego mia Signora
manda qualcun altro più capace di me». E la risposta della Vergine fu: «Potrei mandare chiunque, ma voglio che sia tu a portare il messaggio».
Voglio che sia tu. Non chiunque. Ma “tu”. Questa risposta fa capire che anche quando c’è da dare un importante messaggio per tutti, l’uomo non è mai un mezzo, semplice strumento. Ma un fine, tanto quanto i destinatari. Il mediatore non viene mai “usato”, ma egli stesso è destinatario di un amore particolare, di un disegno. Juan viene scelto. La Vergine vuole lui. Juan era importante. Dio ci tiene a Juan. Come ci teneva a Mosè, ugualmente restio, e non solo alla sua missione.
Come ci teneva a Giona, quando con la pianta di ricino lo tormenta e lo consola. Come ci tiene ai profeti e agli apostoli, uno per uno. Come ci tiene a noi, al di là di ciò che possiamo compiere. Quel «voglio che sia tu», vale per ciascuno di noi. Chiunque potrebbe fare le cose che facciamo, e forse le farebbe anche meglio: come dice san Paolo, siamo servi inutili. Ma Dio non punta sull’efficacia dello strumento, anzi sceglie spesso strumenti assai imperfetti. Però per fare quella determinata cosa oggi, sceglie me.
Se si comprende questo, tutte le azioni della mia giornata acquistano un significato diverso davanti a Dio, non solo per le azioni in sé, ma perché vuole che sia io. Questo m’incoraggia e al tempo stesso m’illumina su una grande responsabilità. Mi conferma che devo stare al mio posto, che non posso delegare agli altri. Non posso spostare quella che è la mia missione, il mio compito, ad altre persone. Il modo con cui lo eseguo è la chiave della mia salvezza. A dispetto dei miei peccati, io sono in pieno nel progetto di Dio. Perché sebbene faccia fatica a rendermene conto, Egli vuole me. â–
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