Altre volte, sul Timone, ci siamo soffermati a considerare gli scritti di alcuni antichi autori pagani nei quali è possibile riconoscere un’attesa, spesso senza speranza, espressa attraverso domande sul destino dell’uomo. La definizione del teologo Karl Rahner di questi autori è “cristiani anonimi” (anticipano contenuti cristiani senza, ovviamente, esserne coscienti). Tutto il mondo antico occidentale, a partire dalle prime opere letterarie conosciute, di provenienza greca, si è posto di fronte alla divinità in modo diverso ma sempre problematico. I poeti tragici greci, soprattutto Euripide, il più “moderno” di loro, hanno sostanziato con le loro opere il dramma dell’uomo alla ricerca della Verità – il vero dramma del mondo antico, prima che Dio si rivelasse (e anche del mondo moderno, che cerca altrove, invece che in Dio, la ragione della sua esistenza) – che riconosce di essere fatto per un Destino più grande del suo orizzonte, breve nel tempo e ristretto ad uno spazio angusto. Eppure, i protagonisti “positivi” della tragedia greca, che rimane l’insuperata testimonianza del senso religioso di quel popolo, incarnano le virtù umane di bene, di giustizia, di amore che trovano giustificazione solo in un Dio buono e amorevole, quindi provvidente, che i Greci non avevano mai conosciuto ma che “sapevano” che ci doveva essere (anche se pensavano di poterlo trovare con le loro speculazioni filosofiche). La ricerca, condotta instancabilmente per quasi un millennio, doveva condurre infine al tempo della verità, non senza aver reso tangibile l’insufficienza degli dei e, sotto il profilo filosofico, del politeismo («Il criterio della verità, introdotto nel mondo antico degli dei, agisce come una carica esplosiva», osserva C. Gnilka): la «maturità dei tempi» (cfr. Gal 4,4) è stata anche una lunga incubazione, condotta in una vana speranza di qualcosa o di qualcuno che andasse incontro alle domande dell’uomo facilitandogli finalmente l’incontro con la Verità. Platone parla di una zattera lanciata all’uomo dalla divinità per consentirgli di raggiungere la riva (solo Dio può rivelarsi all’uomo e comunicargli la Verità).
Fra i “cristiani anonimi” che si incontrano nella tradizione letteraria dell’antichità un posto spetta anche al poeta che forse meno di altri ci aspetteremmo di vedere annoverato tra questi: Catullo. Morto poco più che trentenne nel 54 a.C., esponente di una corrente poetica che oggi diremmo disimpegnata – i cosiddetti poetae novi: si può intendere i poeti “sconosciuti” o “del rinnovamento” – col pensiero rivolto agli amori effimeri ed una visione apparentemente superficiale dell’esistenza, nel carme 64 (il componimento più lungo del suo Canzoniere, dove celebra le mitiche nozze fra Péleo e Tetide dalle quali nascerà l’eroe Achille) Catullo rivela in alcuni passi una religiosità solidamente attaccata alla tradizione romana, ma desiderosa di cogliere una verità ancora sfuggente.
Nei versi iniziali Catullo rimpiange l’età in cui, secondo la mitologia, uomini e dei vivevano insieme sulla terra e potevano unirsi fra loro dando origine alla stirpe semidivina degli eroi; ciò sarebbe avvenuto nella mitica età dell’oro, al principio della storia umana. Catullo rimpiange la mitica età degli eroi: «oh eroi, nati in un tempo lontano secoli e troppo a lungo rimpianto, salve, o stirpe divina!» (o nimis optato saeclorum tempore nati / heroes, salvete, deum genus; vv. 22-23). Questo sguardo pieno di nostalgia rivolto al passato lascia trasparire la speranza che l’attesa troppo lunga finisca prima o poi: ciò può avvenire solo per un intervento divino, e anticipa di qualche decennio la speranza, che Virgilio farà propria, del ritorno della mitica età dell’oro nella quale cesseranno odi e contese, con un richiamo di Virgilio stesso a Isaia 11,6-9, che descrive il Messia e il suo regno: anche questo ha fatto pensare ad un Virgilio precristiano, anticipatore del Cristianesimo. La partecipazione della natura divina e di quella umana era dunque un dato conosciuto e accolto dal mondo greco-romano; in età imperiale, i Romani decretavano l’apoteosi agli imperatori dopo la loro morte: essi consideravano che fosse mestiere divino il governo del mondo e l’aver accresciuto la grandezza di Roma e la gloria dei suoi abitanti. Dunque, la regalità era implicitamente connessa con la natura divina e ai Romani non doveva creare problema che Cristo fosse asceso al cielo né che Egli fosse resuscitato dai morti.
A differenza di Virgilio, in Catullo è presente il rimpianto di un “Paradiso perduto” ma è ancora assente la speranza di un rinnovamento; egli è cosciente che il rapporto con la divinità dipende dal rispetto della sua volontà e che tale rapporto si infrange per colpa dell’uomo. Gli dei, che un tempo si mostravano ai mortali e abitavano le case degli eroi, non si fanno più vedere da quando gli uomini hanno perso il rispetto degli dei stessi: hanno intriso la terra di nefandezze, per la cupidigia hanno cacciato la giustizia, hanno versato il sangue fraterno, non piangono più la morte dei genitori (vv. 384-386; 397-400). Di fronte agli dei i Romani tengono un atteggiamento assai diverso dai Greci: questi sottopongono ad un giudizio razionale ciò che si racconta degli dei (il mito); i Romani, invece, considerano la religione tradizionale, trasmessa come eredità dai loro maiores (antenati), un pilastro dello Stato. Essi possono anche non credere in ciò che professano pubblicamente, ma prima di tutto si deve rispettare la tradizione (cfr. Cicerone, Sulla natura degli dei, III 2, 5).
Ritornando al carme 64, Catullo ricorda il tradimento di Téseo nei confronti di Arianna. La colpa di aver infranto l’alleanza con gli dei (la pax deorum) per aver disobbedito al loro comando (neglecto numine divum, v. 134) è un sacrilegio inespiabile. Arianna domanda che siano gli dei, unici depositari affidabili della fedeltà alle promesse (fides caelestum), a renderle giustizia e a loro si affida completamente: «non voglio morire né perdere i sensi per lo sfinimento del corpo prima di aver domandato agli dei, per il tradimento subìto, una giusta pena [per Teseo] e prima di aver chiesto, nell’ora estrema, la loro fedeltà alla promessa» (vv. 188-191). Catullo insomma esprime la giusta fiducia in un dio sconosciuto, difficile “confessione” di una fede senza bussola. I temi del poemetto catulliano, pur nella loro evidente funzionalità narrativa, contengono significativi contenuti della religiosità romana della tarda repubblica (I secolo a.C.) che l’avvicina al Cristianesimo. Nell’ultima parte del carme 64, Catullo affronta il tema della morte sebbene, in apparenza, il motivo dominante sia l’incoraggiamento a cogliere le gioie della vita. Per questo mette in scena le Parche, divinità col fuso in mano, alle quali era affidato il compito di tessere il filo della vita umana e di tagliarlo: egli ripete, come un ritornello, «Coi vostri fili fatali girate, fusi, girate!». Il destino di ogni mortale si avvicina ogni giorno che passa; si realizzano i sogni della giovinezza e dell’amore, ma si avvicina anche il momento in cui tutto questo finirà: vita e morte si intrecciano senza che sia riservato spazio alla speranza. La cecità dell’uomo che non distingue più il bene dal male, ma tutto confonde nella sua follia (omnia fanda nefanda malo permixta furore, v. 405), cancella il pensiero degli dei, che rende giusta ogni cosa.
Per saperne di più…
Divo Barsotti, Dal mito alla verità. Euripide “profeta” del Cristo, Gribaudi, 1992.
Alfredo Valvo, Desiderio e nostalgia nel pensiero di Cicerone, in Angela Maria Mazzanti (ed.), Verità e mistero nel pluralismo culturale della tarda antichità, ESD, 2009, pp. 40-48. Alfredo Valvo, Anticipazioni cristiane e coscienza del Mistero nel pensiero del I secolo a.C., in Angela Maria Mazzanti (ed.), Il volto del Mistero. Mistero e rivelazione nella cultura religiosa tardoantica, Itaca, 2006, pp. 11-19