Continuiamo la riflessione sul sacerdozio che abbiamo iniziato la volta scorsa, esaminando un aspetto particolare: quello del celibato.
Tutti sappiamo come, nei decenni successivi al concilio Vaticano II, tantissimi sacerdoti cattolici abbiano lasciato, non il sacerdozio – come qualche volta sbagliando si dice, dal momento che questo sacramento non può mai essere revocato: «Tu es sacerdos in Aeternum» – bensì l’esercizio del ministero. I numeri parrebbero indicare che si tratti addirittura di un terzo rispetto al totale di consacrati. Una emorragia impressionante, pari soltanto a quella che avvenne all’epoca della Riforma quando interi territori si staccarono dalla Chiesa madre.
Sappiamo anche come, per la stragrande maggioranza di coloro che hanno lasciato, la causa sia stata, almeno apparentemente, una crisi affettiva che ha avuto quasi sempre come esito un matrimonio. Ora l’esodo, dopo essere giunto al suo culmine, sembra essere rallentato. Anche se è ancora facile leggere periodicamente sui media casi di sacerdoti che fanno notizia per eventi legati in modi diversi ai comportamenti affettivi e sessuali. Un insieme di avvenimenti che fanno certamente emergere uno stato di disagio diffuso tra il clero e che non può non far pensare ogni credente. Un disagio che porta molti, anche cattolici, a chiedersi se, visto che molti preti faticano a vivere il celibato e a mantenere la castità, non sia meglio porre rimedio a questo stato di cose allentando le norme che riguardano questo aspetto della vita sacerdotale. Tanto più che – si fa giustamente notare – la norma che obbliga al celibato i sacerdoti cattolici non è di diritto divino ma solo di diritto ecclesiale. Questo significa che, di per sé, la Chiesa potrebbe benissimo cambiare il proprio statuto senza andare contro la Scrittura e decidere, così, che i preti che ordina possano essere uomini sposati. Come, del resto lo erano Pietro e i primi apostoli tra i quali Gesù sceglie anche i primi sacerdoti quando dice loro: «Fate questo in memoria di me» o quando assicura loro che «quanto scioglierete in terra sarà sciolto anche nei Cieli».
Tanto che, nella Chiesa ortodossa, l’obbligo del celibato esiste solo per i vescovi e non per gli altri sacerdoti. La stessa Chiesa latina prevede qualche eccezione, per esempio nel caso di quei pastori che, provenendo dall’anglicanesimo e convertendosi al cattolicesimo, siano già sposati. Se ritenuti idonei, potranno diventare preti nella Chiesa cattolica. Ma dovranno essere ordinati sacerdoti, perché la Chiesa non riconosce legittimità e validità al ministero anglicano. Perché allora la Chiesa cattolica ha fatto questa scelta del celibato ecclesiale e insiste nel mantenerla, nonostante le pressioni che si sono fatte sempre più forti e frequenti in questi ultimi decenni e nonostante l’esodo dei tanti sacerdoti che hanno lasciato il ministero per sposarsi? Ridotte all’osso, crediamo che le motivazioni possano essere riassunte in ciò che rispondeva Escrivà de Balaguer, il santo prete fondatore dell’Opus Dei, a chi gli chiedeva quale fosse l’identità del sacerdote: «Essere strumento immediato e quotidiano della Grazia salvifica che Cristo ha meritato per noi». Ma, poi, soleva aggiungere, per dirimere ogni obiezione anche riguardo al celibato: «Quando si comprende questo principio, quando lo si medita nell’attivo silenzio della preghiera, come possiamo considerare la verginità una rinuncia?». Facendo così capire come sia proprio quella assimilazione a Cristo nella chiamata specifica del sacerdozio ministeriale la ragione prima delle scelte della Chiesa sul celibato.
Ai suoi sacerdoti, dunque, essa vuole proporre non una rinuncia, ma un dono. Non una costrizione, ma una scelta: quella di chi, chiamato a rendere presente Cristo in carne e sangue agli uomini di ogni tempo, vuole farsi il più simile possibile al Maestro, seguendolo anche in quella offerta totale di sé che porta fino alla Croce. Sacrificando su quel Calvario, in nome di un amore dato con cuore indiviso a tutti gli uomini, anche la progettualità umana legata ad un corretto esercizio della sessualità, che è anch’essa, peraltro, una ricchezza e un dono di Dio.
La scelta del celibato da parte della Chiesa, e poi dei singoli preti che la fanno propria, non nasce, dunque, da una scarsa considerazione per la grandezza di una vocazione alla famiglia, quanto piuttosto dall’avere intuito come rivolto a sé quell’invito di Gesù a «farsi eunuchi per il regno dei Cieli».
Cioè ad aprire il proprio cuore, libero da legami terreni, a Dio, in modo così pieno e totale da potervi far entrare il mondo intero. Una scelta che appartiene pure ad altri, come per esempio i religiosi e le religiose ma che poco a poco la Chiesa ha valutato come estremamente opportuna anche per il sacerdozio secolare e che per questo ha fatta sua.
Accanto a queste motivazioni di tipo spirituale ne esistono altre di tipo pratico, che dalle prime derivano. Motivazioni recentemente riconosciute anche da uno studioso come Vittorino Andreoli, psichiatra, non credente, spesso in disaccordo con le posizioni ecclesiali, il quale, parlando del celibato sacerdotale – anche in base alla sua esperienza clinica – così scrive: «A me pare che, nella lettura delle cose di questa terra, la scelta del celibato sacerdotale sia una condizione praticamente indispensabile e quindi sia una derivazione dal tipo di credo, dal tipo di società e dunque dai bisogni che i fedeli chiedono al sacerdote. E che nella società attuale continua a presentarsi come particolarmente opportuna. Bisogna che il sacerdote favorisca il parlare di cose dello spirito, il volare in alto, e certo il sacerdote con moglie, figli e suocera e con tutti i problemi di questo intrigo mondano finirebbe per dare al fedele l’impressione di incontrare un simpatico collega di lavoro, per strada e all’osteria, e con cui si fanno quattro chiacchiere. Se il sacerdote è colui che fa cose sacre, saremmo a un livello troppo basso se tutto si ancorasse ai malanni della sua signora o ai risultati scolastici del primo o del secondogenito. E non voglio fare accenni alla gelosia che però, lo ricordo, è un sentimento di questo mondo e fa parte dei conflitti di appartenenza».
Scelta difficile, dunque, il celibato casto proposto dalla Chiesa? Sicuramente, ma non certo impossibile. Come dimostra una storia lunga di secoli e piena di santi sacerdoti. Scelta resa sicuramente più ardua, oggi, da alcuni fattori tra loro concomitanti.
Anzitutto da parte della cultura dominante, da una attenzione fino ai limiti della patologia per una sessualità spesso disordinata e sfrenata che tutto pervade e che crea una mentalità certamente poco propensa a capire e sostenere una scelta di castità celibataria.
E, poi, una caduta generalizzata della fede, anche all’interno della Chiesa stessa, che rende più difficile il ruolo del sacerdote, accentuando per lui i rischi di umana frustrazione e di solitudine.
Sottoposti a questo tiro incrociato, spesso con una scarsa formazione umana, spirituale, intellettuale, in difficoltà di fronte ai cambiamenti di una cristianità che si andava frantumando, non pochi tra i nostri sacerdoti non hanno retto, scivolando facilmente nella ricerca di un umano conforto.
Ma anche, assai spesso, in una nostalgia di quanto hanno lasciato.
Una stagione piena di sofferenza della quale forse solo ora si cominciano a decifrare bene cause e rimedi. Non è l’ideale che va abbassato, è piuttosto la forza per viverlo che va ritrovata. Per questo la Chiesa non solo non ha ceduto – pur dimostrando misericordia verso chi ha lasciato – ma, anzi, sta rilanciando quel sacerdozio celibatario che fa parte essenziale della sua tradizione.
Aiutando, anche con questo anno sacerdotale, i preti sopravvissuti alla crisi e i giovani – pochi ma si spera buoni – a ritrovare la propria identità e a viverla con gioia e slancio pieni. Ma, al contempo, compiendo il grande sforzo, proprio insieme ai suoi preti – ma anche a tutti noi – di ricostruire pian piano una cristianità nuova. Saldamente radicata nella stessa fede di sempre. Ma al contempo aperta alle esigenze dei tempi e ai bisogni degli uomini di oggi.
Una cristianità che abbiamo capito esigere la capacità di proporre il Vangelo eterno anche a queste generazioni che credono di non averne bisogno. E che dunque richiede cristiani convinti e coraggiosi, rispettosi ma forti. E di conseguenza preti ben formati, umanamente risoluti pur nella loro inevitabile fragilità, che siano uomini di fede salda e di preghiera intensa, e che per questo sappiano amare e sostenere le nostre pusillanimità, i nostri limiti, le nostre incertezze. Preti generosi che, scegliendo la libertà da legami umani, a tratti certamente faticosa, sappiamo tuttavia sublimarla per rioffrircela sotto forma di un amore a tutti disponibile. A noi capirli e sostenerli in queste loro fatiche.