La situazione descritta nella puntata precedente, sotto la guida degli Apostoli, portò ad una strutturazione nuova degli elementi cristiani della Cena pasquale. Nella Cena pasquale Gesù 1) prese il Pane; 2) pronunciò l’azione di grazie; 3) lo spezzò e lo distribuì dicendo: «Prendete e mangiate…».
Dopo, assunti gli alimenti e bevande prescritti, con occasione dell’ultimo brindisi – diremmo oggi – o secondo la terminologia rituale dell’“ultimo bicchiere”, 1) prese il calice, con vino misto ad acqua; 2) pronunciò la benedizione e 3) lo diede dicendo: «Prendete e bevete…».
Perciò prima con il pane Gesù “prese”, “pronunciò” e “dette” dicendo; e dopo la cena, prendendo il calice, nuovamente “prese”, “pronunciò-pregò-benedisse” e “diede” dicendo. Scomparendo il carattere sociale del cibo dall’atto di culto cristiano, spontaneamente gli Apostoli, ed in primo luogo san Paolo, finirono per raggruppare il rito in successivi passi. Così: 1) si prende Pane e Vino misto ad Acqua (Presentazione dei doni); 2) si prega ringraziando e benedicendo (Preghiera Eucaristica), e 3) si spezza il Pane e si offre e la stessa cosa avvenne per il Calice donde bere (Riti di Comunione).
Questa trasformazione ebbe due conseguenze immediate: il graduale sorgere delle Preghiere Eucaristiche e con ciò la progressiva centralità che queste grandi esposizioni di azione di grazie e benedizione, sul pane ed il vino presentati, cominciarono a riscuotere nel contesto della celebrazione del Memoriale del Signore, fino a raccogliere nel loro seno le parole stesse dell’istituzione, fino ad allora associate al momento di distribuire la Comunione, e portarono ad un progressivo cambiamento di nome della celebrazione che da “Frazione” del pane incominciò a chiamarsi “Eucaristia”.
Ma questa grande trasformazione, che cominciò nelle comunità provenienti dal paganesimo, si andò generalizzando per tutto il mondo cristiano. Lo testimoniano, secondo molti, gli stessi racconti della cena dei sinottici e di san Paolo, soprattutto nelle Lettere dell’Apostolo delle genti, e tale trasformazione era pacificamente acquisita e già considerata “normale” nella presentazione della S. Messa che fa san Giustino nella sua Apología (attorno all’anno 150).
Ma che cosa dire dei testi eucaristici primitivi dove non appaiono le parole del racconto dell’Istituzione, quello che chiamiamo “consacrazione”? Ovvero le preghiere della Didache (“Insegnamento degli Apostoli”, attorno all’anno 70, o secondo altri verso il decennio 80-90), o la Preghiera siro-caldea chiamata degli Apostoli (discepoli di) Addai e Mari, anche molto antica e di tradizione propria.
Questi testi sono per alcuni occasione per tentare l’abbattimento di tutta la teologia sacramentaria della Chiesa e mettere in discussione la necessità stessa di pronunziare le “Parole del Signore” per celebrare l’Eucaristia.
Evidentemente non credo che nessuna di tali obiezioni abbia fondamento. Piuttosto bisogna dire che queste testimonianze riflettono il modo di agire nella Chiesa in epoca apostolica e dei primi Padri: non commettere alcuna violenza nei cambiamenti liturgici. In questo periodo “fondativo” si tollerava quasi, rispettosamente, coloro che avessero voluto conservare la prima forma di celebrazione, salva la presenza del cibo di fraternità. Ci furono comunità, specialmente in Siria, che conservarono con ogni probabilità l’abitudine di unire le parole dell’istituzione con il momento immediato di distribuire la comunione e non li incorporarono, come il resto della Chiesa, nella Preghiera Eucaristica. Come, del resto, in quella stessa regione di Siria troveremo la sopravvivenza dell’antico uso quatuordecimano per celebrare la Pasqua, che tanto apparve strano ai cristiani del resto del mondo.
Si può parlare dunque di un cambiamento realizzato nel corso di quasi un secolo e che ammise eccezioni. Quello che fu evidente è che tutta la forza dell’autorità apostolica fu impegnata per assicurare la fede e la retta comprensione del mistero eucaristico e che il conseguimento di questo fine fu quello che incoraggiò a realizzare i cambiamenti necessari, nell’incipiente Liturgia della Chiesa.
Altro interessante momento nella storia della Liturgia cattolica, questa volta già nell’ambito strettamente romano, è il passaggio della Liturgia nella Sede di Pietro dalla lingua greca alla lingua propria di Roma e dell’Impero, il latino. Evidentemente, quello che qui avviene è più che un semplice cambiamento di lingua. (3 Continua)
IL TIMONE N. 102 – ANNO XIII – Aprile 2011 – pag. 47