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9.12.2024

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Chi educa?
31 Gennaio 2014

Chi educa?

 

 

 


Chi sono i soggetti responsabili dell’educazione? Da dove nasce l’incomunicabilità fra le generazioni? Qual è il ruolo dei genitori, docenti, sacerdoti? La riflessione di un vescovo aiuta a comprendere come il problema educativo sia anzitutto culturale.



 

L'educazione, una emergenza nazionale L'educazione è una emergenza nazionale. Questa emergenza si rende presente in tutti gli aspetti della vita sociale, quindi emerge in modo diversificato nella vita della comunità parrocchiale, in molti punti degli ambienti familiari, nella cosiddetta compagnia giovanile, e quindi anche nella scuola.
L'emergenza educazione è una impossibilità comunicativa fra il mondo adulto e il I mondo giovanile. Ogni passaggio generazionale implica una difficoltà, una fatica di : rapporto e di comprensione nella comunicazione adeguata dei valori fondamentali. I valori trasmessi non possono essere vissuti dalla • generazione successiva esattamente nello stesso modo in cui vengono comunicati. Quindi emergenza non vuoi dire difficoltà generazionale, ma significa impossibilità comunicativa. Le due generazioni I si fronteggiano in una situazione di assoluto silenzio, il silenzio della incomunicabilità.
C'è questa impossibilità comunicativa perché le generazioni precedenti sono state lentamente espropriate dalla loro cultura che è stata sbrigativamente sostituita dall'opinione comune massmediatica.
Questa opinione ha come sostanziale riferimento ultimo quella che Benedetto XVI chiama la tecno-scienza, cioè la fiducia assoluta che la scienza possa risolvere tutti i problemi attraverso l'uso della tecnologia. Non si può entusiasmare un giovane con la tecno-scienza. Un giovane ha bisogno di sapere perché vive. Implicitamente o esplicitamente, la generazione più giovane ci chiede delle ragioni per vivere.
Di fronte a questa domanda zone sempre più vaste del mondo adulto non trovano contenuti per rispondere. La generazione degli adulti non trova più contenuti in sé, perché ha assistito quasi impotente al lento esaurirsi dei valori. In questo silenzio, molte volte pieno di fatica perché si desidererebbe saper rispondere ma non si sa rispondere, la generazione giovane vive due atteggiamenti: la delusione o l'inerzia. La maggior parte dei giovani è inerte perché delusa. Un giovane che non trova risposta si delude. La psicologia dei giovani non è mai forte, meno che mai quella di giovani che vivono una situazione dissestata come quella di molte famiglie, delle scuole, della vita sociale.
L'emergenza nazionale è la necessità che le generazioni ricomincino a comunicare sulla sostanza. Non so se voi abbiate seguito sulla stampa una polemica provinciale che ha assunto un carattere nazionale. Gli studenti del liceo classico Spedalieri di Catania, il liceo più importante della città, erano compagni di scuola di quel sedicenne che ha ucciso, nel 2007, il sostituto commissario di Polizia Filippo Raciti, colpendo lo forse con un sanitario estratto dai bagni dello stadio, un ragazzo comune, che faceva il liceo classico. Questi studenti, di fronte allo shock di questo episodio, hanno scritto ai loro professori su La Sicilia, il quotidiano più importante dell'isola, chiedendo le ragioni adeguate per vivere. I professori del liceo hanno risposto scrivendo al giornale. È significativo il fatto che studenti e insegnanti, che si vedono tutti i giorni, devono scrivere al giornale per parlarsi. Nella risposta i professori hanno detto di non essere pagati per dare delle ragioni per vivere, ma per insegnare delle nozioni. Questa è l'immagine della situazione che ho descritto: una incomunicabilità per assenza di valori vissuti, che incontra una realtà giovanile o inerte o delusa perché si aspetterebbe quello che non riceve.

La scuola, luogo della incomunicabilità

La scuola è uno dei luoghi, non certamente il primo, dove emerge questa incomunicabilità. Qui emerge in modo specifico, perché emerge in un momento della vita in cui, nonostante tutto, il desiderio di vivere la speranza del senso della vita non è ancora scomparso. Quindi è possibile evitare la delusione, perché è un momento in cui i ragazzi sono meno distanti. All'insegnante viene fatta una domanda di educazione. L'insegnante non è in prima battuta l'educatore.
L'educazione è affidata alla famiglia, poi alla Chiesa in modo sussidiario, e, in una realtà sociale variegata come la nostra, alla scuola, che così si carica di domande educative.
All'insegnante è chiesto di essere anche educatore nel senso di dare, attraverso l'insegnamento, spunti educativi. Questo avviene, se l'insegnante è portatore di una cultura che non coincide con la sua competenza nozionistica. La cultura di un insegnante non è soprattutto ciò che sa, ma, come ci ha insegnato Giovanni Paolo Il, la cultura è ciò che si è. La cultura è il modo specifico di essere e di esistere dell'uomo, è quella posizione di fronte a se stessi e alla realtà che da posizione istintiva diventa visione. C'è una cultura fondamentale che caratterizza la personalità ed è il timbro che l'uomo si porta dietro per tutta la vita. La cultura matura e s'incrementa in tutte le circostanze che l'uomo incontra e quindi certamente attraverso la professionalità che ha scelto o che gli è capitato di dover fare. Nella scuola l'emergenza educativa diviene una richiesta di cultura all'insegnante che non si aggiunge all'insegnamento, ma lo anima, lo forma, nel senso di principio di organicità. Attraverso l'insegnamento fatto con totale intelligenza e con evoluzione di carattere metodologico e contenutistico passa qualcos'altro. Quel qualcos'altro educa, diventa una proposta di umanità. Attraverso il greco, il latino, la storia, l'educazione musicale e quant'altro, si educa. Se la forma del nostro insegnamento non ha la dignità di una cultura, l'insegnamento decade, difficilmente trova interesse.

Cultura e insegnamento
Nel nostro insegnamento giochiamo la cultura; dobbiamo chiederci se il nostro insegnamento ha come forma un impegno culturale sostanziale. L'impegno culturale non si aggiunge alla maturazione giusta e doverosa della professionalità che ha bisogno dei necessari aggiornamenti, la cultura è qualche cosa di fondamentale che bisogna ritrovare in sé ogni giorno ed approfondire.
Robert Spaemann, il più grande filosofo cattolico vivente, in una tavola rotonda che abbiamo tenuto insieme al Meeting per l'amicizia fra i popoli a Rimini nello scorso mese di agosto, ha iniziato citando una frase del filosofo scozzese Oavid Hume (1711-1776) su cui concorda il novanta per cento della cultura ufficiale: «L'uomo non deve fare un passo oltre sé, deve restare in sé». L'uomo si deve accontentare di stare nell'orizzonte della sua istintività e della sua empiria.
Spaemann, invece, dice che l'uomo deve fare un passo oltre a sé, e soltanto se fa un passo oltre sé esce dal regno polveroso dell'assurdo per entrare nella realtà.
La cultura è un ingresso nella realtà reale. Vorrei citarvi una bellissima definizione di cultura in questo senso primario e fondamentale che è contenuta in uno dei libri capitali, secondo me, di questi ultimi cinquant'anni: il volume che lo storico e filosofo americano George Weigel ha dedicato a Giovanni Paolo /I (Testimone della speranza.
La vita di Giovanni Paolo Il, Mondadori, 2005). Un libro capitale per comprendere non solo l'esperienza del Papa, ma il fatto che egli è realmente l'immagine di ciò che è accaduto in questo secolo.
Weigel scrive: «La storia non si può leggere attraverso i fumi di scarico emessi dai mezzi della produzione». I marxisti affermavano che la legge della storia è la legge della produzione. Quindi la conseguente lotta di classe è la storia della materialità dei bisogni e delle macchine che rispondono a questi bisogni. Questo è il senso della storia, cioè la linea lungo la quale si legge la storia. Questa è la struttura, diceva Karl Marx (18181883), il resto è sovrastruttura. Su questo Weigel ha una espressione bruciante, perché il senso della storia non è rivelato dai fumi di scarico delle macchine, al contrario «la storia è mossa a lun"'1 go termine dalla cultura, vale a dire da ciò che gli uomini e le donne onorano, adorano e venerano, da ciò che le società considerano vero, buono e nobile, dalle espressioni che esse danno a queste convinzioni nel linguaggio, nelle letterature e nelle arti, da ciò per cui individui e società sono disposti a vivere e a morire. Questa è la cultura».
La domanda dunque è se noi siamo portatori di una cultura come questa.
Che sia una cultura di un certo tipo o di un altro, caratterizzata da certe movenze religiose oppure soltanto dalla ricerca, la cultura consiste comunque nei valori per cui un uomo vive. La cultura è una domanda di verità sulla propria vita e sul mondo, perché l'uomo che si chiede la verità, chiede contemporaneamente la verità sul mondo, essendo l'uomo l'unica realtà che nella sua coscienza ha presente contemporaneamente sé e la realtà.
Posso soltanto accennare a una delle cose più grandi dell'intervento di Regensburg, quello che il Papa ha chiamato il domandare greco, vale a dire la domanda di senso, la filosofia non come scienza in sé, ma come domanda di verità, di bellezza, di giustizia, di bene.
Questa inesorabile apertura della ragione verso qualche cosa che non si possiede ancora e il cui possesso è sentito come essenziale. La ragione non dice "io posseggo", ma dice "io ho bisogno", "io sento", "io desidero", "io tendo oltre me"…, perché se l'uomo conoscesse il senso della sua vita non ci sarebbe nessuna ricerca e nessun movimento nella vita e nella storia.
La nostra cultura deve alimentarsi della domanda. Dobbiamo essere uomini che hanno chiesto alla vita il suo senso, la sua verità e fanno sentire anche nel modo in cui impostano le cose più particolari che c'è una passione dell'esistenza.

Famiglia e scuola

Il vertice della ragione, come ci ha insegnato don Luigi Giussani, è la domanda. L'educazione s'incomincia in famiglia e si deve fare nella scuola. Questo apre una dialettica. L'educazione si fa nella scuola, se essa ha come preoccupazione fondamentale l'educazione. Se la scuola ha come preoccupazione fondamentale l'istruzione, si apre una dialettica, una lotta. I genitori devono fare una lotta. Purtroppo i genitori hanno rischiato di accettare che educazione significhi istruzione. I professori, che negli anni Sessanta avevano difeso la neutralità della scuola accusando di integralismo le posizioni di chi diceva, come me, che nella scuola bisogna essere cristiani, si sono sentiti dire da Giovanni Paolo Il che in una scuola soltanto istruttiva avviene un degrado educativo. Uno sa, ma non è. Dopo dodici anni di scuola uno sa tutto, più o meno, ma non è. Per questo non c'è niente di più grande culturalmente del senso del proprio limite. Allora accade una reale capacità di convivenza. Un uomo comunica all'altro il suo io più profondo come contenuto di una testimonianza. L'educazione è sempre originata da una testimonianza. La testimonianza precede ed eccede il contenuto del dire.
Quante volte ho cercato di chiarire agli insegnanti che l'insegnante è anche educatore, non è soltanto educatore, perché egli non è il primo depositario dell'educazione. Il primo depositario dell'educazione è la famiglia. Ma guai al padre e alla madre che chiudono il rapporto con i loro figli dentro il perimetro stretto della famiglia e non si preoccupano di aprire questo loro embrione di compagnia a realtà più vaste. Il ragazzo deve essere aiutato a verificare per sé. Quindi è fondamentale che il giovane sia rispettato nella sua libertà. La sua libertà non è: "Fai quello che vuoi". La sua libertà è provocarlo con una proposta e aiutarlo con una verifica, stargli accanto in modo discreto e vigilante, perché il giovane possa, nelle varie stagioni della sua vita, vedere se quello che gli ho comunicato è vero, cioè, come diceva Tommaso D'Aquino, corrisponde a lui.

BIBLIOGRAFIA
 
Tina Tomasi, Massoneria e scuola dall'unità ai nostri giorni, Vallecchi, 1980.
Mario Mauro, Compagni di scuola, Ares, 2004.
Rino Cammilleri, L'ombra sinistra della scuola, Piemme, 2002.
Luigi Negri, Emergenza educativa, che fare?, Fede & Cultura, 2008.

 

 

 

Dossier: Emergenza educativa

 

IL TIMONE  N. 82 – ANNO XI – Aprile 2009 – pag. 39 – 41

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