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10.12.2024

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“Chi sono io secondo la gente?”
31 Gennaio 2014

“Chi sono io secondo la gente?”

 

 

«Un giorno, mentre Gesù si trovava in un luogo appartato a pregare e i discepoli erano con lui, pose loro questa domanda: “Chi sono io secondo la gente?”. Essi risposero: “Per alcuni Giovanni il Battista, per altri Elia, per altri uno degli antichi profeti che è risorto”. Allora domandò: “Ma voi chi dite che io sia?”. Pietro, prendendo la parola, rispose: “Il Cristo di Dio”. Egli allora ordinò loro severamente di non riferirlo a nessuno»
(Lc 9,18-21 ).

Chi è Gesù? Gesù è “il” Figlio di Dio, della stessa natura del Padre, dunque lui stesso “Dio”. Questa risposta semplice e schietta è quella della fede della Chiesa. È la risposta “ingenua” del credente: si tratti della vecchietta che entra in chiesa ed accende con fede una candela davanti alla statua di sant’Antonio, oppure di un erudito teologo che ha consumato la vita sui testi delle Scritture, dei Padri della Chiesa e dei filosofi, da questo punto di vista non c’è differenza…
Ci potremmo però allora chiedere: perché da nessuna parte Gesù dice con chiarezza di sé stesso “io sono Dio”? Non ci avrebbe così semplificato le cose?
No, le avrebbe soltanto irrimediabilmente complicate. Quello che gli uomini vedevano era un uomo. Un uomo che faceva miracoli, che parlava come nessuno aveva mai parlato, ma pur sempre un uomo. Come identificarlo con Dio, il principio trascendente, il tre volte “Santo” (santo – qadosh in ebraico vuoi dire: “separato”), senza pronunciare una orribile bestemmia? Sembrava più ovvio farlo rientrare in categorie a tutti note, come quella di “profeta”: Giovanni Battista, Elia, Geremia… Quelle parole che a noi cristiani oggi paiono abbastanza ovvie e scontate come “Dio”, “natura”, “persona” non avevano ai tempi di Gesù il significato che hanno assunto oggi, dopo secoli di travaglio spirituale, teologico e pastorale della Chiesa. Oggi può sembrare facile, ad un cristiano che conosce bene il suo catechismo, dire che “Gesù è Dio”, dando per scontato che in questa identificazione di Dio con un uomo – aiutato in questo proprio dalle categorie elaborate dalla Chiesa – non mette assolutamente in discussione né la natura divina di Dio, perché Dio rimane sempre Dio e non perde nessuna delle sue caratteristiche, né la natura umana di Gesù, perché Gesù rimane uomo e lo è da tutti i punti di vista, tranne che per il peccato (senza il quale l’uomo rimane uomo, anzi diventa ancora più uomo). Il problema è che Gesù ha portato nel mondo con la sua persona una presenza di Dio assolutamente nuova e inaudita, quella presenza che noi esprimiamo, usando le parole del Vangelo di san Giovanni (Gv 1,14), “incarnazione”. Nell’unica “persona” di Gesù di Nazaret si trovano così unite in modo strettissimo, insuperabile e ineffabile due “nature”: la natura di Dio e quella dell’uomo. La divinizzazione dell’umanità di Gesù è poi anch’essa il frutto di un processo, in particolare della sua risurrezione: «costituito Figlio di Dio […] mediante la risurrezione dai morti» (Rm 1,4).
Questi termini hanno rappresentato un chiarimento importante e preziosissimo della nostra fede. Un chiarimento irrinunciabile: non si può più tornare indietro, i “dogmi” della Chiesa rimangono per sempre. Non sono dei limiti alla nostra comprensione, ma sono piuttosto “finestre sull’Assoluto”. Tuttavia, è sempre altrettanto importante rileggere i testi in cui sono espresse queste prime confessioni di fede, in cui gli apostoli esprimono quello che hanno visto e percepito stando accanto a Gesù con le parole che avevano a disposizione e che venivano dalle Scritture dell’Antico Testamento. Sia in Marco che in Matteo e Luca il brano della confessione di Pietro è seguito immediatamente dall’annuncio della passione, dall’invito alla sequela («Se qualcuno vuoi venire dietro di me rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua» Mc 8,34;Mt 16,24; Lc 9,23) e dall’episodio della trasfigurazione, in cui l’anticipazione della gloria di Gesù conferma che l’itinerario delineato è assolutamente necessario e conforme alla sapienza di Dio rivelata nella Legge e nei Profeti. Non si può veramente capire che cosa significa “Gesù è Dio” se non si percorre quel cammino. L’identità di Gesù può essere colta dall’esterno: chi dice la gente che io sia? Oppure dall’interno: voi chi dite che io sia? Dall’interno di chi ha partecipato alla sua preghiera e ha camminato con lui.
Questo valeva per gli apostoli e i discepoli del tempo di Gesù: le parole che hanno usato per esprimere la loro fede erano dei balbettamenti, non falsi, ma molto imperfetti. Noi oggi abbiamo parole più chiare, ma anche noi continuiamo a balbettare, perché non ne capiamo ancora pienamente il significato. Per coglierlo dobbiamo camminare con lui. «Questa è la vita eterna: che conoscano te, l’unico vero Dio, e colui che hai mandato, Gesù Cristo» (Gv 17,3). «Che cosa vediamo se teniamo insieme l’intero mosaico dei testi?
Ebbene i discepoli hanno riconosciuto che Gesù non rientrava in nessuna delle categorie consuete, che Egli era qualcosa di più e di diverso da “qualcuno dei profeti”. Fin dal Discorso della montagna come di fronte alle sue azioni potenti e alla sua facoltà di perdonare i peccati; dall’autorevolezza della sua predicazione come dal suo modo di trattare le tradizioni della Legge, da tutto questo hanno riconosciuto che Egli era più di “qualcuno dei profeti”. Era quel “profeta” che, come Mosè, parlava a faccia a faccia con Dio come un amico; era il Messia e lo era, tuttavia, non nel senso di un semplice incaricato di Dio.
In Lui le parole messianiche erano vere in un modo sconcertante e inaspettato: “Tu sei mio Figlio, io oggi ti ho generato” (Sal 2,7). In istanti significativi i discepoli, sconvolti, percepivano: “Questi è Dio stesso”. Non riuscirono a comporre tutto ciò in una risposta perfetta. Utilizzarono giustamente – le parole di promessa dell’Antica Alleanza: Cristo – Unto, Figlio di Dio, Signore. Sono le parole fondamentali in cui si concentrò la loro confessione che, però, rimaneva ancora in ricerca andando come a tentoni. Poté trovare la sua forma completa solo nel momento in cui Tommaso, toccando le ferite del Risorto, esclamò pieno di commozione: «Mio Signore e mio Dio!» (Gv 20,28). In ultima istanza, però, rimaniamo con questa parola sempre in cammino. Essa è così sublime che non riusciremo mai ad afferrarla del tutto, sempre ci oltrepasserà. Lungo tutta la sua storia la Chiesa è in perenne pellegrinaggio per penetrare in questa parola che ci può diventare comprensibile soltanto nel contatto con le ferite di Gesù e nell’incontro con la sua risurrezione, divenendo poi una missione per noi» (Joseph Ratzinger – Benedetto XVI, Gesù di Nazaret, Rizzoli, 2007, p. 351-352).

IL TIMONE N. 74 – ANNO X – Giugno 2008 – pag. 60

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