Che molto cibo vada sprecato si è sempre saputo. Ma è solo da pochi anni che sono disponibili dati complessivi sull’entità del fenomeno a livello mondiale. A rivelarli è stata una ricerca svolta nel 2011 dall’Istituto svedese per l’alimentazione e la biotecnologia per conto della Fao, Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura. Il rapporto conclusivo, intitolato “Perdite e sprechi alimentari globali”, è stato presentato nel maggio del 2011 a Dusseldorf, al congresso internazionale Save the food! (Risparmia il cibo!), organizzato dalla FAO e dalla Interpack 2011.
I ricercatori svedesi hanno individuato cinque fasi nella catena alimentare: la produzione agricola, l’insieme costituito da raccolto, trasporto e immagazzinamento, la lavorazione, la distribuzione e il consumo. Per “perdite” alimentari hanno inteso tutti i prodotti commestibili che vanno perduti durante le prime tre fasi della catena alimentare, dalla produzione alla lavorazione, e per “sprechi” gli alimenti invenduti e quelli gettati via dai consumatori nelle ultime due fasi. Perdite e sprechi sono stati calcolati dividendo gli alimenti in due categorie – prodotti di origine vegetale e animale – ciascuna delle quali ulteriormente suddivisa (latticini, cereali, frutta e verdura, carne, pesce…).
L’ammontare delle perdite e degli sprechi per tutte le categorie alimentari considerate è astronomico:
circa 1,3 miliardi di tonnellate ogni anno, una quantità impressionante in termini assoluti e ancora di più se si considera che rappresenta un terzo degli alimenti commestibili prodotti annualmente.
Dati sconcertanti
Commenti e analisi, dopo la pubblicazione del rapporto, si sono concentrati su due grandi temi in particolare: sul fatto che una simile quantità di cibo basterebbe a nutrire chi ancora nel mondo patisce la fame, e ancora ne avanzerebbe, e sull’impatto ambientale della sovrapproduzione di cibo in termini sia di inutile dispendio di energia e di risorse naturali che di inquinamento, causato oltre che dalla produzione e dal trasporto, anche dallo smaltimento delle derrate alimentari
inutilizzate e delle loro confezioni. Ritroviamo entrambi i temi, ad esempio, in un documento presentato nel 2013 in vista dell’Expo Milano 2015 “Nutrire il pianeta, Energia per la vita”. Si tratta del Protocollo di Milano sull’alimentazione e la nutrizione, elaborato dal Barilla Center for Food and Nutrition. Vi si evidenziano tre paradossi: lo spreco di cibo, pari a quattro volte la quantità necessaria a nutrire gli 868 milioni di persone malnutrite; la quantità esorbitante di raccolti destinati alla produzione di biocarburanti e al nutrimento del bestiame, mentre c’è chi manca del necessario per sopravvivere; l’esistenza di 1,5 miliardi di persone obese o sovrappeso – quasi il doppio di quelle affamate – con 36 milioni di persone che ogni anno muoiono di fame e 29 milioni che muoiono per eccesso di cibo. I rimedi, per i relatori del Protocollo, si sintetizzano in due parole d’ordine: agricoltura sostenibile e stili di vita sani, due moniti rivolti eminentemente alle economie industriali e agli abitanti dei Paesi ricchi.
Ma si tratta di una prospettiva parziale, che non tiene conto delle parti del rapporto Fao in cui perdite e sprechi sono indicati per aree geografiche, nove in tutto. Esaminandole, si scopre che promuovere agricoltura sostenibile e stili di vita sani rappresenta poco più della metà del problema. I Paesi industrializzati infatti sono responsabili solo dello spreco di 670.000 tonnellate di cibo. Le rimanenti 630.000 tonnellate si sprecano nei Paesi in via di sviluppo.
Diverso, al di là dell’ammontare quasi equivalente, è il rapporto tra perdite e sprechi.
Perdite e sprechi
Nei Paesi industrializzati gli sprechi prevalgono sulle perdite: il 60% del cibo viene scartato nella fase della distribuzione e in quella finale del consumo. Lo spreco dipende in gran parte dal fatto che molti consumatori tendono ad acquistare generi alimentari in quantità e varietà superiori al loro fabbisogno.
Ma molto si deve anche a un’offerta superiore alla domanda che costringe a ritirare dal commercio i prodotti invenduti entro i termini di scadenza. A determinare invece ingenti perdite, nelle prime tre fasi della catena alimentare, concorrono sia una produzione eccedente al fabbisogno, con i raccolti che vengono distrutti oppure usati come alimenti per gli animali, sia gli alti standard relativi all’aspetto dei prodotti – peso, dimensioni, forma… – per cui una parte dei raccolti
vengono scartati in quanto difformi all’origine o perché danneggiati durante la lavorazione e il trasporto.
Nei Paesi in via di sviluppo il rapporto tra perdite e sprechi è invertito: il 60% del cibo non consumato si perde nelle tre fasi iniziali della catena alimentare, prima della commercializzazione al dettaglio e del consumo:
che tuttavia contano per un considerevole 40%, malgrado che moltissimi consumatori acquistino piccole quantità di alimenti, spesso lo stretto necessario per i pasti del giorno, e non si possano permettere di gettare eventuali avanzi.
Le enormi quantità di prodotti perduti, quasi 400.000 tonnellate, si devono principalmente alla limitata disponibilità di tecnologie moderne. Si perdono bestiame e colture perché esposti a insetti e parassiti, una parte dei raccolti si deteriorano perché conservati in granai e magazzini che non li proteggono da insetti, parassiti e agenti atmosferici. Vie
e mezzi di trasporto carenti comportano altre perdite rallentando e rendendo irregolare l’immissione dei prodotti lavorati sul mercato. Frequenti difetti di confezione e imballaggio contribuiscono al loro deterioramento.
I conflitti armati – guerre civili, scontri tribali, terrorismo… –, soprattutto dove interessano estesi territori per lunghi periodi, comportano infine ulteriori, ingenti danni: raccolti e bestiame vanno perduti nella distruzione di negozi, depositi e piantagioni e perché abbandonati dai proprietari in fuga: l’Africa, ad esempio, conta più di 14 milioni tra profughi e sfollati, buona parte dei quali residenti in aree rurali e dediti ad attività agro-pastorali.
Se l’impegno per una agricoltura sostenibile e per stili di vita sani nei Paesi industrializzati può apparire arduo, ancora più difficile e complesso è ridurre in tempi brevi i fattori che provocano perdite e spreco di cibo in quelli in via di sviluppo: il trasferimento del surplus alimentare, e di altre risorse eccedenti, dagli uni agli altri, senza affrontare i problemi dei Paesi poveri, se risponde a istanze morali, non sarebbe però la soluzione né alla fame né allo spreco di cibo e, nel medio periodo, aggraverebbe entrambi i problemi. â–
QUANTO SI SPRECA…
In media ogni abitante dell’Africa subsahariana e dell’Asia meridionale e sudorientale getta via da sei a 11 chilogrammi di cibo all’anno.
In Europa e in America Settentrionale la media va da 95 e 115 chilogrammi. Nei paesi industrializzati si sprecano nella fase del consumo circa 222 milioni di tonnellate di cibo, quasi l’equivalente del totale netto di generi alimentari – 230 milioni di tonnellate soltanto – prodotti nell’Africa sub sahariana. In Asia meridionale e sudorientale e in Africa sub sahariana la produzione di cibo annua è di 460 chilogrammi per persona, 120-170 dei quali vanno perduti. In Europa e in America Settentrionale la produzione i cibo annua per persona è di 900 chilogrammi, con una perdita di 280-300 chilogrammi.
Oggi si produce il 17% di calorie in più per persona rispetto a 30 anni fa, nonostante che da allora la popolazione sia aumentata del 70%. Le calorie prodotte basterebbero a fornire almeno 2.720 calorie al giorno per persona.
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