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10.12.2024

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Com’era la Rivoluzione Francese
31 Gennaio 2014

Com’era la Rivoluzione Francese

 

 

 

 

Un libro importante getta finalmente un po’ di luce sulla Rivoluzione del 1789. In attesa di un editore italiano.

Un libro di 882 pagine sui misfatti della Rivoluzione Francese – Le Livre noir de la Révolution française (a cura di Renaud Escande O.P., Cert, Parigi 2008) – è pubblicato dalla casa editrice storica dei domenicani di Francia. Nonostante la mole e l'impegno, vende molte copie. Come conseguenza del successo di pubblico, tutta la grande stampa transalpina è obbligata a occuparsene, anche se quasi sempre per parlarne male: peraltro quasi mai indicando errori specifici, ma semplicemente definendo l'iniziativa reazionaria e inopportuna. Ecco quanto fa del libro non un fatto fra tanti, ma – insieme all'imprevisto successo della visita apostolica di seìdetto XVI del 12-15 settembre – l'avvenimento culturale saliente nel panorama francese del 2008.
Le Livre noir non si presenta come una storia sistematica della Rivoluzione Francese. È diviso in tre parti. La prima – «I fatti» – presenta in venticinque capitoli, ciascuno opera di un diverso autore, una serie di episodi salienti della Rivoluzione e alcune valutazioni critiche complessive. La seconda – «Il genio» – offre venti ritratti di pensatori e letterati che hanno, a diverso titolo e da diversi punti di vista, criticato la Rivoluzione. La terza – «Antologia» – completa l'opera con una serie di testi sia di protagonisti sia di critici della Rivoluzione Francese.
Benché la terza parte documenti le affermazioni di tutta l'opera, e la seconda, pure più faticosa da leggere, nasconda alcuni autentici gioielli, mi limito per ragioni di spazio a segnalare alcuni capitoli essenziali della prima.
Si tratta di un vasto affresco, che non a caso si apre con un capitolo (tratto, con l'autorizzazione dell'anziano storico che ha esplicitamente voluto collaborare al Livre noir, da una sua opera del 1984) di Pierre Chaunu sulla vendita dei beni ecclesiastici, dove già si annuncia una delle tesi fondamentali del volume. La Chiesa cattolica non fu coinvolta a causa dei suoi legami con la monarchia in una rivoluzione principalmente politica, ma era il vero obiettivo di rivoluzionari il cui scopo era scristianizzare la Francia. Esemplare è anche la ricostruzione da parte degli storici Jean Pierre e Isabelle Brancourt della giornata del 14 luglio 1789. La presa della Bastiglia emerge sia nella sua dimensione di mito, pensato addirittura prima degli avvenimenti e giunto sino ai giorni nostri, sia nella sua realtà di modesto episodio già però caratterizzato dalla manipolazione della folla da parte dei club e delle società segrete e da una ferocia che diventerà il marchio della Rivoluzione.

 

Il cuore del Livre noir è rappresentato dai due capitoli di Jean de Viguerie sulla persecuzione antireligiosa e di Reynald Secher sul genocidio vandeano. I loro testi sintetizzano l'essenziale della violenza anticristiana della Rivoluzione Francese, che colpisce anche gl'insorti vandeani con una furia genocida che richiede spiegazioni teologiche e non solo politiche. Secher, in particolare, per la Vandea distingue – rispondendo a obiezioni di storici filo-rivoluzionari – tre periodi. Il primo è quello della guerra civile (1793), caratterizzata da atrocità non dissimili da quelle di altre guerre civili. Il secondo è il tempo del genocidio (1794), perpetrato secondo gli ordini delle autorità rivoluzionarie – le quali invano cercheranno di attribuirne la responsabilità al solo delegato della Convenzione Nazionale in Vandea, Jean-Baptiste Carrier (1756-1794), che sarà processato e ghigliottinato – contro una popolazione inerme, dopo che l'insurrezione era già stata sconfitta sul piano militare. Nel terzo periodo va in scena un «memoricidio», iniziato dopo il processo Carrier e ancora in corso ai giorni nostri, con cui si cerca di far dimenticare la memoria del genocidio vandeano attraverso la falsificazione storica e la congiura del silenzio.

 

Altri tre capitoli fondamentali sono dedicati al vandalismo, cioè alla distruzione sistematica per ragioni ideologiche di elementi del patrimonio francese: opere d'architettura e d'arte di natura religiosa o collegate alla storia della monarchia; libri e biblioteche, particolarmente monastiche; e navi. Quanto a queste ultime, il capitolo dello storico Tancrède Josseran riassume una vicenda tanto decisiva quanto poco conosciuta. La Rivoluzione si accorge che la Marina militare francese, orgoglio del re Luigi XVI (1754-1793) che l'ha portata per la prima volta a competere ad armi pari per il dominio del mare con quella inglese, è fondata su uno spirito di corpo e su un sistema di relazioni rigorosamente gerarchico, con ufficiali che sono tutti nobili. Decide quindi coscientemente di distruggere la Marina in nome dell'egualitarismo: i suoi effettivi sono ridotti, gli ufficiali ghigliottinati o messi in fuga, molte navi smantellate per farne legna da costruzioni o da ardere, con comprensibile giubilo di ammiragli inglesi come Horatio Nelson (1758-1805), che vedono in questo autentico suicidio – senza sbagliarsi – il preannuncio di future vittorie per la Gran Bretagna.

 

Non poteva mancare nel Livre noir una parte consacrata agli aspetti istituzionali e giuridici della Rivoluzione. Xavier Martin, nel suo capitolo sul diritto rivoluzionario, mette in evidenza soprattutto due punti. Il primo è la nozione ideologica di legge, che per i rivoluzionari non nasce dal basso, dalla realtà, ma dalla volontà astratta – ritenuta assoluta e onnipotente – della Nazione. Una volta assunto questo punto di partenza, ogni governo – e ogni governante – non resiste alla tentazione di emanare centinaia di nuove leggi. La Rivoluzione aveva promesso di diminuire il numero di leggi: ce n'erano in effetti troppe, per la proliferazione dei diritti regionali e locali. Ma il risultato è piuttosto il contrario. «Quindicimila leggi in quattro anni? La cifra corre agli inizi del Direttorio. Si arriverà a quarantamila quattro anni più tardi»: una tendenza che continua ancora oggi, e che proprio nella Rivoluzione Francese ha le sue origini. Il secondo aspetto sottolineato da Martin è l'odio, ugualmente ideologico, che la Rivoluzione Francese ha per la famiglia. Se l'uomo nuovo che la Rivoluzione vuole creare, il cittadino, deve stare davanti allo Stato senza la mediazione dei corpi intermedi, il diritto rivoluzionario distruggerà certamente le corporazioni e i privilegi locali: ma il suo obiettivo ultimo è il primo corpo intermedio, il più vicino alla persona che è la famiglia.
Tutti i principali teorici della Rivoluzione sognano l'abolizione della famiglia e l'instaurazione di un regime di figli affidati in tenera età allo Stato che non ricordino neppure più chi siano i loro genitori. Cominciano ad abolire la patria potestà e a introdurre il divorzio, nel 1792. Ma succede ai rivoluzionari francesi quello che capiterà ai loro emuli sovietici nel XX secolo: quando si trovano in guerra, scoprono che ogni attacco alla famiglia sfibra la società e danneggia l'esercito. Fanno, dunque, rapidamente marcia indietro: anche se rimarranno il divorzio (fino alla Restaurazione) e l'ideologia, che darà i suoi frutti in Francia nel XIX e nel XX secolo.
Rimarrà pure – è il tema del capitolo di Christophe Boutin – la riorganizzazione del territorio, che sopprime le antiche regioni e le loro autonomie e introduce i dipartimenti, spesso del tutto artificiali e i cui confini sono fissati in un'ottica dichiaratamente anti-regionale.
Si tratta di far prevalere, rispetto a regioni che hanno una cultura comune e che sono nate dalla storia, una divisione territoriale stabilita dall'alto e il cui fine non è promuovere ma reprimere le autonomie locali. I nomi dei dipartimenti, poi, vogliono evitare qualunque riferimento storico e culturale: e anche questo è rimasto fino ai nostri giorni, mentre si è tornati indietro dopo la Rivoluzione almeno rispetto allo «stadio ultimo del ridicolo» che aveva cambiato nome anche alle città, modificando per esempio il nome di Bourg-Ia-Reine («Borgo della Regina») in Bourg-Égalité («Borgo dell'Uguaglianza») e quello di Grenoble (che conteneva la parola «noble», «nobile») in Grelibre.
Gli ultimi sei capitoli della prima parte propongono un inventario dell'eredità della Rivoluzione Francese e una sua valutazione critica. I totalitarismi del XX secolo – il comunismo, ma anche il nazionalsocialismo – e il terrorismo, fino a quello dei giorni nostri, sono ricondotti alla Rivoluzione Francese come alla loro matrice e alla loro origine. Certo, non sono negate le differenze: e tuttavia lo spirito della Rivoluzione Francese, l'idea che la misura della politica non è il bene comune ma l'ideologia, la giustificazione della violenza e del Terrore in nome della stessa ideologia sono momenti cruciali di un processo che prepara i totalitarismi del XX secolo e la giustificazione del terrorismo nel XXI.

 

Benedetto XVI nel paragrafo 19 dell'enciclica Spe salvi ha ricordato gli orrori della Rivoluzione Francese mostrando come, a proposito dei fatti di Francia, ebbe occasione di mutare parere il filosofo tedesco Immanuel Kant (1724-1804), inizialmente entusiasta e che del resto alla Rivoluzione con le sue idee aveva in qualche modo contribuito. Ma nell'opuscolo La fine di tutte le cose, del 1794, ogni maschera è caduta e di fronte alla Rivoluzione Francese il filosofo parla apertamente di un regno dell'«Anticristo», «fondato […] sulla paura e sull'egoismo»: «la fine (perversa) di tutte le cose». Sì: l'Anticristo. Tra i tanti meriti del Livre noir c'è quello di mostrare come il motore dell'impresa rivoluzionaria sia l'odio per la Chiesa cattolica, per la religione, infine per Dio stesso, nel tentativo di inventare una società senza Dio. Ma – come ricorda Giovanni Paolo Il (1920-2005) in uno dei suoi discorsi più famosi, quello al congresso Evangelizzazione e ateismo del 10 ottobre 1980, facendo sue le parole del cardinale Henri de Lubac S.J. (18961991) – «non è vero che l'uomo non possa organizzare la terra senza Dio. Quel che è vero, è che, senza Dio, egli non può in fin dei conti che organizzarla contro l'uomo».

 

RICORDA

 

«Questa specificità [della Rivoluzione francese, ndr.] è l'anticristianesimo totalitario,la sola vera essenza della Rivoluzione francese e il suo unico vero progetto, iniziale e finale. Essa manifesta nel rivoluzionari ciò che Edmund Burke ha magistralmente riconosciuto nel 1790: la loro "fede imperturbabile nel prodigi del sacrilegio". Il 14 luglio 1792 e nel giorni successivi, questo anticristianesimo totalitario, questa fede nel prodigi del sacrilegio fanno osare i gesti sistematici che abbiamo lasciato intravvedere: massacri di sacerdoti, che avvengono un po' dappertutto In Francia e per la prima volta nella storia della Rivoluzione. La distruzione della monarchia sarà il mezzo per garantire ormai l'impunità e la generalizzazione di questi massacri di sacerdoti e più globalmente l'annientamento della religione».
(Jean Dumont, I falsi miti della Rivoluzione francese, Effedieffe, 1989, p. 32).


 

IL TIMONE  N. 80 – ANNO XI – Febbraio 2009 – pag. 22-24

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