«Dobbiamo pregare come se tutto dipendesse da Dio, agire come se tutto dipendesse da noi» (lo stesso detto nella formula “nuova”).
«Avendo udito questo, Gesù partì di là su una barca e si ritirò in un luogo deserto, in disparte. Ma le folle, avendolo saputo, lo seguirono a piedi dalle città. Sceso dalla barca, egli vide una grande folla, sentì compassione per loro e guarì i loro malati. Sul far della sera, gli si avvicinarono i discepoli e gli dissero: “Il luogo è deserto ed è ormai tardi; congeda la folla perché vada nei villaggi a comprarsi da mangiare”. Ma Gesù disse loro: “Non occorre che vadano; voi stessi date loro da mangiare”. Gli risposero: “Qui non abbiamo altro che cinque pani e due pesci!”. Ed egli disse: “Portatemeli qui”. E, dopo aver ordinato alla folla di sedersi sull’erba, prese i cinque pani e i due pesci, alzò gli occhi al cielo, recitò la benedizione, spezzò i pani e li diede ai discepoli, e i discepoli alla folla. Tutti mangiarono a sazietà, e portarono via i pezzi avanzati: dodici ceste piene. Quelli che avevano mangiato erano circa cinquemila uomini, senza contare le donne e i bambini» (Mt 14,13-21; cfr. anche Mc 6,30-44)
Questa volta tratteremo di un “fatto” della Bibbia che la attraversa tutta e che riguarda direttamente il mistero dell’uomo e del suo rapporto con Dio. La fede è un dono: un dono che precede qualunque atto dell’uomo: precede, segue, per così dire “avvolge” l’agire dell’uomo. Tuttavia non annulla la sua libertà. Nel cuore della fede sta l’agire libero dell’uomo. Si tratta ovviamente di un “fatto” assolutamente centrale. Per questo è estremamente interessante vedere come un grande santo, Ignazio di Loyola, lo ha vissuto, compreso e – per così dire – “tradotto” in una formula a lui caratteristica. Qui però, ad accentuare il mistero, sta il fatto che questa formula ci è giunta come “non scritta”, cioè per trasmissione orale. Come spesso succede in questi casi, la trasmissione orale ha dato origine a diverse formule. Due soprattutto. Una, che potremmo chiamare la formula “tradizionale”, perché è quella che fu accettata all’inizio come autenticamente ignaziana; poi la formula “nuova” che si è imposta nel corso del tempo ed è diventata quella comunemente accettata.
Gli studi più recenti e approfonditi hanno ampiamente dimostrato che la formula “tradizionale” è quella corretta (cfr. Gaston Fessard, La dialectique des exercices spirituels de saint Ignace de Loyola, Temps – liberté – grace, Aubier Montaigne, Paris 1956, pp. 305- 363), mentre l’altra formula, quella “nuova”, pur non essendo in sé errata, ha avuto la grave conseguenza di trasmettere una immagine di sant’Ignazio di stampo volontaristico e ascetizzante. Una immagine che non corrisponde affatto alla vera figura del santo.
Sant’Ignazio fu uno dei grandi mistici spagnoli del “Siglo de oro”, da porre accanto a santa Teresa d’Avila e san Giovanni della Croce. Ciascuno di loro cercò di tramettere le proprie esperienze: santa Teresa mediante l’autobiografia, scritta per obbedire ai suoi superiori, san Giovanni della Croce mediante le sue poesie, di cui lui stesso dice che rimangono superiori alle spiegazioni che lui stesso ha cercato di darne e infine Ignazio, che ci ha lasciato, per così dire, la “mappa”, l’“itinerario”, perché chiunque, percorrendolo con fede, possa arrivare a fare la sua stessa esperienza (o comunque simile).
Anche la formula “nuova”, lo abbiamo già notato, può essere letta in senso positivo. A patto però di considerare le azioni da cui tutto dipende e che noi dobbiamo porre in essere come insufficienti. Il modello di questo modo di fare lo troviamo nel Vangelo, nel miracolo della moltiplicazione dei pani e dei pesci (che si tratti di un unico episodio narrato due volte o di due episodi diversi qui conta poco), in particolare nel racconto di Marco-Matteo. I discepoli avvertono Gesù che la folla immensa che sta davanti a loro (veramente immensa: cinquemila uomini, cioè cinquemila capifamiglia: almeno ventimila persone) ha ormai fame. È opportuno congedarli perché vadano a comprarsi da mangiare. La risposta di Gesù è sconcertante: «Non occorre che vadano; voi stessi date loro da mangiare». Anche oggi, con tutti i mezzi tecnologici di cui disponiamo, sarebbe un problema insolubile dar da mangiare a una tale folla di persone senza preavviso. Gesù chiede ai suoi discepoli di mettere a disposizione ciò che hanno, che – sufficiente per loro e Gesù – è decisamente, scandalosamente, insufficiente per obbedire al comando del Signore. È in questo che si manifesta la loro fede: nel compiere, per fede, qualcosa di umanamente insufficiente. I «cinque pani e due pesci» significano quanto siamo capaci noi di fare. Essere disposti a metterlo in gioco per gli altri, pur conoscendone con certezza l’insufficienza, è l’atteggiamento che la fede e solo la fede rende possibile.
Guai però a intendere la frase «agire come se tutto dipendesse da noi» come se sottintendesse una capacità di affrontare ogni situazione con le nostre sole forze: sarebbe espressione del più terribile (e falso) pelagianesimo.
Emerge per contrasto la bellezza e soprannaturale chiarezza della formula “tradizionale”. Metti tutto il tuo impegno nella fede, dì – con tutto il tuo cuore – “Gesù confido in te” e quindi agisci con quello spirito di abbandono per cui, dando tutto quello che hai, la tua fiducia rimane unicamente in Dio, Dio della pace e della gioia.
IL TIMONE – Marzo 2014 (pag. 60)
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