La Bussola Quotidiana lancia una battaglia culturale, perché una guerra è stata dichiarata all’uomo e – piaccia o no – la lotta è già in corso. Il vero nodo è saper rispondere alla sfida educativa, cominciando dal guardare in faccia la realtà.
«Una battaglia culturale contro l’aborto». È questa la campagna lanciata dal quotidiano online La Bussola Quotidiana (www.labussolaquotidiana. it) in occasione del suo primo compleanno, celebrato con un convegno tenutosi al Circolo della Stampa di Milano il 3 dicembre. Una campagna che è in qualche modo il culmine, l’esplicitazione di una attenzione particolare che fin dall’origine La Bussola Quotidiana ha avuto per i princìpi non negoziabili, fondamento di ogni azione sociale volta al conseguimento del bene comune. Ma perché parlare di «battaglia culturale contro l’aborto»? In effetti è bene chiarire tutti e tre i termini dell’espressione, che non sono certo scelti a caso.
Battaglia, anzitutto. È un termine che a qualcuno fa storcere il naso: usare espressioni militaresche e aggressive per una realtà fatta di drammi umani che richiedono una particolare sensibilità, a prima vista sembra inappropriato. In realtà, si tratta di un concetto che ha molto ben spiegato Giovanni Paolo II parlando alla messa celebrata il 3 ottobre 1997 a Rio de Janeiro in occasione dell’Incontro mondiale delle famiglie. Diceva allora il Papa: «Attorno alla famiglia e alla vita si svolge oggi la lotta fondamentale della dignità dell’uomo… Le tenebre oggi avvolgono la stessa concezione dell’uomo… I nemici di Dio, più che attaccare frontalmente l’Autore del Creato, preferiscono colpirlo nelle sue opere. L’uomo è il culmine, il vertice delle sue opere visibili». Sono i “nemici di Dio” dunque ad aver scatenato una guerra contro l’uomo, contro la sua sacralità, contro quell’unicità che nasce dall’essere «a immagine e somiglianza di Dio». E osservando ciò che accade da decenni intorno a noi non si fa molta fatica a riconoscerlo. Se una guerra è stata dichiarata, allora è evidente che siamo chiamati a difendere la vita, l’assoluta irriducibilità delle nostre esistenze, la dignità e l’intangibilità di ogni essere umano che viene concepito. Se volete, è una legittima difesa. Fatto sta che è proprio attorno a questo tema, come diceva il Papa nel 1997, che si svolge una «lotta per la dignità dell’uomo» e i 14 anni trascorsi da quelle parole hanno confermato la verità di quella profezia. La lotta è già in corso, che ci piaccia o no, una guerra ci è stata dichiarata: non abbiamo scelta.
Ma certo dobbiamo anche chiarire di che tipo di battaglia si tratta. Qui non c’entrano le armi da fuoco, né si tratta di esercitare un qualsiasi tipo di violenza. La battaglia è culturale, che non vuol dire intellettuale, anzi è l’opposto. Perché la cultura è il modo di impostare la vita secondo il suo senso, il significato, lo scopo. È perciò una cosa che riguarda tutti, per il solo fatto di essere al mondo. Ognuno al proprio posto.
Noi de La Bussola Quotidiana siamo giornalisti, ed è quindi su questo fronte che conduciamo la battaglia, ma valorizzando tutte le esperienze che vanno in questo senso: da chi combatte sul fronte legislativo a chi opera a fianco delle donne in difficoltà, come dimostra il risalto che La Bussola ha deciso di dare alla testimonianza di Paola Bonzi, fondatrice e animatrice del Centro di Aiuto alla Vita della Clinica Mangiagalli a Milano (13mila bambini salvati in 27 anni di attività); da chi educa al Vangelo della vita all’interno della Chiesa a chi promuove iniziative culturali.
Quella culturale è la sfida più grande che abbiamo di fronte, una sfida che richiede un processo lungo, ma che non ha alternative. Si può anche cambiare una legge – ammesso che ci siano le forze per farlo – ma se non cambia il cuore, la mentalità, la concezione della vita, è una vittoria di Pirro. Del resto lo stiamo vedendo in questi ultimissimi anni, anche con l’eutanasia, tanto per fare un esempio: quando c’è una cultura, una mentalità dominante che è nichilista, relativista, non c’è legge che tenga. Si troverà sempre, prima o poi, un giudice che giustificherà la palese violazione della legge o che chiederà al Governo o alla Regione di modificare quanto già deciso. Il caso Englaro è esemplare da questo punto di vista. Quindi nessun fronte deve essere tralasciato, ma al fondo di tutto sta una sfida educativa e quindi culturale.
Infine va spiegato quel “contro l’aborto”. Si potrebbe obiettare: perché insistere sul “contro” e non su un più positivo “per la vita”? È vero che l’orizzonte entro cui va combattuta la battaglia è quello a favore della vita, dal concepimento alla morte naturale, ma sulla questione aborto si gioca una doppia partita. La prima riguarda la natura e la dimensione del fenomeno. «Abominevole delitto», lo ha definito il Concilio Vaticano II; e Giovanni Paolo II parla di «una ferita gravissima inferta alla società e alla sua cultura»; «la più grande minaccia per la pace», lo definiva Madre Teresa di Calcutta, che spiegava: «è una guerra diretta, una diretta uccisione, un diretto omicidio per mano della madre stessa. […] Perché se una madre può uccidere il suo proprio figlio, non c’è più niente che impedisce a me di uccidere te, e a te di uccidere me». La dimensione del fenomeno, poi, ne fa la più grande tragedia del nostro tempo: 50 milioni di bambini uccisi ogni anno nel mondo, un’intera nazione come l’Italia a cui ogni anno viene negata l’esistenza. Le conseguenze – non solo morali, ma anche sociali ed economiche – sono devastanti. Ed è quindi giusto sottolineare con chiarezza questo fenomeno.
Ma c’è una seconda partita, forse ancora più importante. Un tratto caratteristico della nostra società è quello di non fare i conti con la realtà. Non ci si lascia interrogare, ferire dalla realtà, si usano tutti i modi per non farsi toccare dalla realtà: si vive staccati, seguendo le più svariate ideologie, anche quelle personali.
L’evoluzione del linguaggio ne è un aspetto, le parole tendono a confondere la realtà invece di chiarirla. Nel caso dell’aborto è un fatto eclatante: la legge che lo ha introdotto in Italia parla di “interruzione volontaria di gravidanza”, ma lo si definisce anche “salute riproduttiva”, “diritto alla salute”, “libertà di scelta”. Si nasconde la realtà dietro formule rassicuranti o addirittura invocando un diritto, tralasciando il piccolo particolare che si sta parlando dell’eliminazione di una vita umana.
Per questo, ha detto Giovanni Paolo II nell’enciclica Evangelium Vitae, bisogna tornare a definire con precisione la realtà, perché «la diffusione di una terminologia ambigua come quella di “interruzione della gravidanza”, […] tende a nascondere la vera natura dell’aborto e ad attenuarne la gravità nell’opinione pubblica». Il risultato è che – dice sempre Giovanni Paolo II – «oggi, nella coscienza di molti, la percezione della sua gravità è andata progressivamente oscurandosi. L’accettazione dell’aborto nella mentalità, nel costume e nella stessa legge è segno eloquente di una pericolosissima crisi del senso morale, che diventa sempre più incapace di distinguere tra il bene e il male, persino quando è in gioco il diritto fondamentale alla vita».
Allora diventa fondamentale guardare e aiutare a guardare in faccia la realtà: «L’aborto procurato – dice ancora Giovanni Paolo II – è l’uccisione deliberata e diretta, comunque venga attuata, di un essere umano nella fase iniziale della sua esistenza, compresa tra il concepimento e la nascita. (…) Chi viene soppresso è un essere umano che si affaccia alla vita, ossia quanto di più innocente in assoluto si possa immaginare: mai potrebbe essere considerato un aggressore, meno che mai un ingiusto aggressore! È debole, inerme, al punto di essere privo anche di quella minima forma di difesa che è costituita dalla forza implorante dei gemiti e del pianto del neonato. È totalmente affidato alla protezione e alle cure di colei che lo porta in grembo».
È un compito che comincia dalla Chiesa cattolica, dove ormai è più facile trovare sacerdoti e vescovi che si spendono per la gestione statale degli acquedotti o contro l’energia nucleare piuttosto che per sanare questa piaga della nostra società. Non è un caso che trenta anni di “giornate per la vita” non abbiano avuto alcuna incidenza culturale nella Chiesa e nella società. “
Contro l’aborto” allora, non è un restringimento dell’orizzonte entro cui combattere la nostra battaglia nel mondo, ma è la condizione perché questo orizzonte venga compreso.
RICORDA
«La disciplina canonica della Chiesa, fin dai primi secoli, ha colpito con sanzioni penali coloro che si macchiavano della colpa dell’aborto e tale prassi, con pene più o meno gravi, è stata confermata nei vari periodi storici. Il Codice di Diritto Canonico del 1917 comminava per l’aborto la pena della scomunica. Anche la rinnovata legislazione canonica si pone in questa linea quando sancisce che “chi procura l’aborto ottenendo l’effetto incorre nella scomunica latae sententiae”, cioè automatica. La scomunica colpisce tutti coloro che commettono questo delitto conoscendo la pena, inclusi anche quei complici senza la cui opera esso non sarebbe stato realizzato: con tale reiterata sanzione, la Chiesa addita questo delitto come uno dei più gravi e pericolosi, spingendo così chi lo commette a ritrovare sollecitamente la strada della conversione. Nella Chiesa, infatti, la pena della scomunica è finalizzata a rendere pienamente consapevoli della gravità di un certo peccato e a favorire quindi un’adeguata conversione e penitenza ».
(Giovanni Paolo II, Evangelium vitae, n. 62).
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