«Tutta la Scrittura, ispirata da Dio, è anche utile per insegnare, convincere, correggere ed educare nella giustizia, perché l’uomo di Dio sia completo e ben preparato per ogni opera buona» (2 Ti 3,16-17).
«Noi […] abbiamo questo tesoro in vasi di creta, affinché appaia che questa straordinaria potenza appartiene a Dio, e non viene da noi. In tutto, infatti, siamo tribolati, ma non schiacciati; siamo sconvolti, ma non disperati; perseguitati, ma non abbandonati; colpiti, ma non uccisi, portando sempre e dovunque nel nostro corpo la morte di Gesù, perché anche la vita di Gesù si manifesti nel nostro corpo. Sempre infatti, noi che siamo vivi, veniamo consegnati alla morte a causa di Gesù, perché anche la vita di Gesù si manifesti nella nostra carne mortale. Cosicché in noi agisce la morte, in voi la vita» (2 Co 4,7-12).
Quanto è difficile “convincere” un uomo della verità di Cristo! L’italiano “convincere” viene dal latino “vincere”. Si tratta infatti di vincere una battaglia, una battaglia che «non è contro la carne e il sangue» (Ef 6,12), ma contro «il dio di questo mondo», il quale si sforza di accecare le menti «perché non vedano lo splendore del glorioso vangelo di Cristo, che è immagine di Dio» (2 Co 4,4). Spesso ci si trova come davanti ad un muro contro il quale sembra che i nostri argomenti rimbalzino. Che cosa fare allora?
Prima di tutto dobbiamo renderci conto che i nostri argomenti non devono essere “nostri”. C’è una bella poesia di Antonio Machado che esprime con il fascino di poche rime una profonda verità di senso comune: «La tua verità? / No; la verità / e vieni a cercarla con me / la tua tientela». La verità non è proprietà di nessuno, perché coincide in fondo con una persona, la Persona di Cristo: «Io sono la via, la verità e la vita» (Gv 14,6). Spesso, quando un cattolico parla con sicurezza della verità del Vangelo così come è proposta dalla Chiesa, si sente obiettare di “avere la verità in tasca”. Io mi sono abituato a rispondere così: «Non ho la verità in tasca, mi sento piuttosto in tasca alla Verità e ci sto così bene che vorrei che ci venissi anche Tu!». Una garanzia di questo fatto è il nostro ricorso all’Autorità di Dio e della Chiesa: «Chi parla, lo faccia con parole di Dio» (1 Pt 4,11).
Ora, la Parola di Dio non è una semplice informazione, ma è come un seme, il quale opera misteriosamente nel cuore nella misura in cui è – almeno un po’ – accolto. Non sempre questa accoglienza si nota di primo acchito. Per lo più ci vuole un ingrediente importante che si chiama “tempo”. Lo sanno bene gli agricoltori e gli esempi agricoli infatti sono presenti in grande quantità nelle Scritture. Quale contadino semina e va a veder il giorno dopo se si vede un risultato? «Così è il regno di Dio: come un uomo che getta il seme sul terreno; dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce. Come, egli stesso non lo sa.Il terreno produce spontaneamente prima lo stelo, poi la spiga, poi il chicco pieno nella spiga; e quando il frutto è maturo, subito egli manda la falce, perché è arrivata la mietitura» (Mc 4,26-29). Spesso chi raccoglie non è la stessa persona che ha seminato: «Io ho piantato, Apollo ha irrigato, ma era Dio che faceva crescere. Sicché, né chi pianta né chi irriga vale qualcosa, ma solo Dio, che fa crescere. Chi pianta e chi irriga sono una medesima cosa: ciascuno riceverà la propria ricompensa secondo il proprio lavoro. Siamo infatti collaboratori di Dio, e voi siete campo di Dio, edificio di Dio» (1 Co 3,6-9).
È importante poi comprendere che oltre a parlare di Dio con la persona a cui vogliamo annunciare il Vangelo, bisogna parlare a Dio di questa stessa persona, cioè bisogna pregare. Se l’annuncio non è accompagnato dalla preghiera è sempre sterile. Spesso l’apparente insuccesso è solo un invito di Dio a pregare con più convinzione e perseveranza. Il suono delle parole deve lasciar spazio al silenzio della preghiera.
Ma c’è un passo in più da fare. Il modello per ogni apostolo è Gesù stesso. Come Gesù ci ha “convinti”? Certamente belle ed efficaci sono state le sue parole. Ma non sono state, da sole, decisive. I discepoli di Emmaus, che si allontanano scoraggiati e sfiduciati da Gerusalemme dopo la morte di Gesù, parlano delle sue parole al passato, come di un lontano ricordo: «Ciò che riguarda Gesù, il Nazareno, che fu profeta potente in opere e in parole, davanti a Dio e a tutto il popolo; come i capi dei sacerdoti e le nostre autorità lo hanno consegnato per farlo condannare a morte e lo hanno crocifisso. Noi speravamo che egli fosse colui che avrebbe liberato Israele; con tutto ciò, sono passati tre giorni da quando queste cose sono accadute» (Lc 24,19- 21). È solo con la sua morte e risurrezione che la parola di Gesù manifesta tutta la sua potenza. Così deve essere per noi. Ogni sofferenza piccola o grande che incontriamo nella nostra vita è come una vocazione, la chiamata a farci collaboratori di Gesù e portatori della sua infinita forza di convinzione, tale da frantumare tutti gli ostacoli che si levano contro la conoscenza di Dio e impediscono l’obbedienza di Cristo (cfr. 2 Co 10,4). Ogni sofferenza può diventare offerta proprio per quella persona che resiste alla Parola di Dio e da essa si può sprigionare una potenza che non è più umana, ma divina.
IL TIMONE N. 107 – ANNO XIII – Novembre 2011 – pag. 60