Alcune Regioni (e alcune proposte di legge) stanno equiparando il matrimonio alle unioni di fatto e a quelle omosessuali. Tre argomentazioni per respingere questo tentativo.
Nei mesi scorsi le Regioni Toscana, Emilia Romagna, Umbria e Marche, guidate da giunte di centrosinistra, hanno elaborato un nuovo Statuto regionale, che contiene, tra l’altro, l’equi-parazione giuridica tra la famiglia fondata sul matrimonio e altre forme di convivenza, come le cosiddette «unioni di fatto» e come, sebbene in modo meno esplicito, le unioni omosessuali. A nulla sono valse le centinaia di lettere di protesta inviate per iniziativa, in particolare, del benemerito sito
www.fattisentire.net. Mentre scrivo questo articolo, da un lato il Governo ha già meritoriamente impugnato gli statuti di Toscana e Umbria, dall’altro simili proposte di legge stan-no per essere discusse anche in Parlamento.
Nelle brevi righe che seguono cercherò di svolgere alcune (non tutte) delle critiche razionali, accessibili mediante la sola ragione, che si possono muovere all’equiparazione suddetta. Preciso che non rivendico un intervento dello Stato nelle scelte private di coloro che praticano queste forme di unione; piuttosto voglio criticare il riconoscimento pubblico di queste scelte private. In altri termini, le coppie di fatto e le unioni omosessuali non devono essere né punite dallo Stato, né legittimate pubblicamente.
1) Lo Stato deve riconoscere e promuovere quelle attività e forme di vita che contribuiscono al bene comune, come, anzitutto, la procreazione e l’educazione dei figli, che assicurano la continuazione stessa e la sopravvivenza di una società. Ora, non c’è dubbio che il contesto più propizio per la nascita e la crescita di un nuovo essere umano è una forma di vita associata caratterizzata dall’amore, dalla stabilità e dalla coesione dei suoi membri. A questi requisiti risponde solo la famiglia fondata sull’unione eterosessuale, perché le unioni di fatto sono deliberatamente a tempo determinato e per loro stessa natura caratterizzate dalla volubilità: infatti le persone che le compongono non si impegnano con alcun vincolo a rimanere unite. Per la loro strutturale instabilità, le unioni di fatto non possono perciò garantire ai figli l’ambiente adatto all’educazione ed alla crescita. Non a caso, secondo recenti ricerche sociologiche, condotte negli USA da un gruppo di ricercatori della Rutgers University, tre bambini su quattro nati da coppie di fatto sperimentano la rottura della loro famiglia prima dei 16 anni di età e si ritrovano in una famiglia monoparentale. S.L. Brown ha appurato che i figli delle coppie conviventi patiscono più facilmente …. disordini psicologici rispetto ai figli delle coppie sposate: asocialità, depressione, difficoltà di concentrazione. Anche il tasso di violenza 15 domestica è molto più alto nella famiglie di fatto che fra le persone sposate ed è tre volte maggiore l’incidenza della depressione tra i conviventi che fra gli sposati. Questo è uno dei motivi che può spiegare quanto W.O. Manning e O. Lichter hanno rilevato, vale a dire che i figli dei conviventi hanno risultati scolastici in media più scadenti; essi inoltre vivono mediamente in condizioni di povertà maggiore (tutti questi dati socio-logici sono citati in Casadei 2003 e Risè 2003, cfr. bibliografia).
Quanto alle unioni omosessuali, è anzitutto chiaro che esse non possono generare nuovi esseri umani che continuino una società. E dare in adozione figli a queste coppie significa, quanto meno, privarli volutamente della figura paterna o materna (una donna resta pur sempre donna e non può sostituire un padre, e lo stesso vale per un uomo, che non può sostituire una madre). Per ora non ci sono dati sufficienti, ma i pochi disponibili indicano che l’affidamento di bambini a queste coppie comporta loro dei problemi psicologici molto gravi (van den Aardweg 1998). Questo per la carenza di un padre o di una madre o anche perché il tasso di violenza nel mondo omosessuale è molto elevato e perché la brevità delle unioni omosessuali è clamorosa: per esempio, un ampio studio (Beli & Weinberg 1978) svolto su un campione americano, mostrava che su 574 uomini omosessuali soltanto tre avevano avuto un unico partner, 1’1 % ne aveva avuti 34, il2 % 5-9, il3 % 10-14,1’8 % 25-49, il 9 % 50-99, il15 % 100-249, il 28 % 1000 (mille) e più.
Qualcuno potrebbe obiettare che nemmeno il matrimonio offre una garanzia totale di stabilità, visto che ci sono matrimoni che falliscono. Ma a ciò si può replicare che il matrimonio è quanto di più vicino ad una garanzia che la società abbia saputo inventare. Una tale cerimonia è senz’altro più degna di fede di qualunque promessa privata sussurrata in segreto. Una promessa privata non è sufficiente quando si acquista una casa o si entra nell’esercito; in questi casi occorre firmare ed impegnarsi pubblicamente. È fondamentale chiedere che chi si sposa si impegni davanti alla società e davanti a Dio (se è credente) a rispettare le responsabilità che si assume.
Inoltre, l’antropologia culturale dimostra che ogni ritualizzazione (come la celebrazione delle nozze) di un impegno assunto, riconosciuta dalla società, aumenta la capacità di rimanere fedeli a quell’impegno.
2) Nel matrimonio i coniugi si assumono delle responsabilità in modo pubblico e formale, si assumono dei doveri verso il coniuge e verso i figli, il cui rispetto può essere esigito giuridicamente. Invece, nelle altre unioni l’adempimento degli obblighi viene lasciato alla totale arbitrarietà dei conviventi. Perciò se lo Stato riconosce queste unioni opera un atto giuridico a senso unico: mentre si assume delle obbligazioni nei confronti dei conviventi, essi non si assumono alcuna obbligazione, mentre riconosce dei diritti e concede incentivi economici (per esempio quelli per comprare la casa), in cambio non esige i doveri che invece esige dai coniugi.
3) Perché lo Stato dovrebbe riconoscere giuridicamente queste unioni e non altre forme di cooperazione e di convivenza, come quella di due o più amici, di una persona anziana con un nipote, di due fratelli anziani che si sostengono mutuamente, ecc.? Perché il requisito per ot-tenere il riconoscimento deve essere la presenza della relazione sessuale, che non sussiste nelle altre forme di convivenza? Perché non può bastare la semplice presenza di una relazione affettiva? E poi, come verificare che tale relazione sessuale sussista realmente e non sia in realtà soltanto dichiarata, in modo da poter accedere ai diritti che il riconoscimento giuridico di queste unioni garantirebbe? È chiaro che l’equiparazione si presterebbe facilmente agli abusi e alle truffe di coloro che volessero garantirsi alcuni diritti e benefici senza assumersi alcun dovere.
RICORDA
«L’amicizia tra marito e moglie […] è naturale: l’uomo, infatti, è per sua natura più incline a vivere in coppia che ad associarsi politicamente, in quanto la famiglia è qualcosa di anteriore e di più necessario dello Stato».
(Aristotele, Etica Nicomachea 1162a 16-19).
BIBLIOGRAFIA
Pontificio Consiglio per la Famiglia, voci «Matrimonio» di omosessuali e Unioni di fatto, in Lexicon. Termini discussi su famiglia, vita e questioni bioetiche, EDB 2003, pp. 587-598,835-851.
Gerard van den Aardweg, «Matrimonio» omosessuale & affidamento a omosessuali, «Studi cattolici» 449/50 (1998), pp. 499-507.
A.P. Beli & M.S. Weinberg, Homosexualities: A study of diversity among men and women, Simon & Schuster, New York 1978.
Rodolfo Casadei, II buon selvaggio, «Tempi» 44 (2003), pp. 3-9.
Claudio Risè, II padre. L’assente inaccettabile, San Paolo 2003, pp. 134-136.
IL TIMONE N. 37 – ANNO VI – Novembre 2004 – pag. 8 – 9