15.12.2024

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“Cor ad cor loquitur”. Il cuore parla al cuore
1 Febbraio 2014

“Cor ad cor loquitur”. Il cuore parla al cuore



«Stavano presso la croce di Gesù sua madre, la sorella di sua madre, Maria madre di Clèopa e Maria di Màgdala. Gesù allora, vedendo la madre e accanto a lei il discepolo che egli amava, disse alla madre: “Donna, ecco tuo figlio!”. Poi disse al discepolo: “Ecco tua madre!”. E da quell’ora il discepolo l’accolse con sé» (Gv 19, 25-27).

«Come avverrebbe per chi avesse veramente visto ciò che racconta, anche l’araldo delle novelle del mondo invisibile sarà, secondo i casi, appassionato o calmo, triste od esultante; sempre semplice, grave, vigoroso e perentorio; e tutto ciò, non perché si sia proposto di esserlo, ma perché determinate convinzioni intellettuali implicano determinate manifestazioni esterne. San Francesco di Sales è chiaro e completo su questo punto. È necessario, egli afferma, “che tu stesso abbia assimilato a fondo, e sia pienamente persuaso, della dottrina della quale vuoi persuadere gli altri. Il massimo dell’artificio sarà l’assenza d’artificio. Le tue parole s’infiammino, non d’esagerati clamori e gesticolazioni, ma d’intimo affetto; sgorghino dal cuore piuttosto che dalla bocca. Per quanto abbiamo potuto dire con la bocca, il cuore parla pur sempre al cuore, mentre la lingua non fa che colpire l’orecchio”» (John Henry Newman, L’idea di università, VI La predicazione nell’università, 3, in: Opere, a cura di Alberto Bosi, UTET, Torino 1988, p. 1089).

«In una lettera al p. Laínez del 7 marzo 1546 troviamo i princìpi e gli atteggiamenti che egli [san Pietro Favre] considera essenziali per rimediare ai problemi della Riforma protestante: “La prima cosa è che chi vuole essere utile agli eretici di questo tempo, deve cercare di avere carità nei loro confronti e di amarli veramente, eliminando dal proprio animo tutte le considerazioni che di solito diminuiscono la stima che si ha di loro. La seconda cosa è che è necessario conquistarli, perché ci amino e ci accolgano bene nel proprio spirito: questo si fa comunicando con loro familiarmente in cose che sono comuni a noi e a loro”» (Rogelio García Mateo S.I., Pietro Favre, il luteranesimo e l’unità dei cristiani, in La Civiltà Cattolica n. 3924 [2013], pp. 554-555).


C’è un “fatto” della Bibbia che è il più importante di tutti e – per tanti aspetti – il più nascosto. È quello costituito dal tipo di rapporto che Dio, mediante l’invio del Verbo incarnato e dello Spirito Santo, vuole stabilire con ogni uomo. È in virtù di questo rapporto che noi possiamo cambiare il nostro rapporto con gli altri e con noi stessi. Esso è provvidenzialmente racchiuso in un motto che, pur non trovandosi letteralmente nella Bibbia, ne svela però il “cuore”. La formula è ormai nota a tutti perché il beato John Henry Newman la ha scelta come detto da porre nel suo stemma cardinalizio quando, il 12 maggio 1879, papa Leone XIII lo creò cardinale. Pochi sanno però qual è la sua origine, soprattutto perché Newman stesso se l’era dimenticata. Esso risale a san Francesco di Sales, come si può facilmente scoprire sfogliando le opere dell’oratoriano inglese. Newman a un certo punto si chiede: come predicare bene? E non trova niente di meglio che riprodurre il pensiero che san Francesco di Sales espone in una sua lettera all’arcivescovo di Bourges del 5 ottobre 1604. Il buon predicatore deve lasciar parlare il cuore. Non il cuore inteso come sentimento, ma quello che è unione profonda di intelligenza e volontà, di verità e di amore. Soprattutto non il “suo” cuore, ma il cuore che Gesù stesso gli ha trasformato rivolgendogli la parola. Perché le parole colpiscono solo le orecchie, mentre il cuore parla al cuore.
Ma così è troppo facile! No, al contrario, è troppo difficile per il nostro orgoglio. Per questo esso ci è consegnato come già presente nella storia sacra. In esso dobbiamo entrare, ad esso siamo chiamati a partecipare. Da esso siamo chiamati a lasciarci “conquistare” con la tenerezza e la dolcezza che può avere solo una Madre. È il rapporto unico che si stabilisce tra Gesù e sua Madre soprattutto ai piedi della croce. È lì che in modo ineffabile e perfetto il cuore parla al cuore. Due cuori in perfetto unisono entrano in dialogo.
È inutile osservare che non si tratta di un rapporto puramente “sentimentale”. Non è neppure puramente intellettuale o soltanto volontaristico. È un rapporto unitario: in cui intelligenza, volontà e sentimento trovano – in virtù di un dono trascendente – la loro piena unità. Gli effetti costituiscono delle prove. È con questo metodo che san Francesco di Sales (che – sia detto di passaggio perché pochi lo sanno – è un figlio di san Filippo Neri e appartiene alla famiglia dell’Oratorio) ha conquistato il Chiablese, una regione della Savoia caduta interamente nelle mani del calvinismo. È con questo metodo che san Pietro Favre conquistava tanti giovani all’apostolato e convinceva tanti eretici luterani. Lui che – a detta di sant’Ignazio – era il discepolo che guidava gli Esercizi nel modo migliore. È questo rapporto che spiega veramente concetti che oggi fanno tanto discutere e creano tanta confusione, come “pastorale” o “partecipazione liturgica”.
Cedo la parola a un teologo americano contemporaneo: «L’esempio supremo di partecipazione liturgica deve essere trovato nel Cuore Immacolato di Maria che sta ai piedi della croce. L’armonia perfetta di questi due cuori, di Cristo e di Maria, è l’ideale perseguito dalla Chiesa nella liturgia » (Colman E O’Neill, Meeting Christ in the sacraments, a cura di Romanus Cessario, Society of St. Paul, New York, N.Y. 1991, p. 307).

IL TIMONE N. 130 – ANNO XVI – Febbraio 2014 – pag. 60

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