Il 19 settembre del 2010, Benedetto XVI si è recato a Birmingham, seconda città della Gran Bretagna per abitanti e per importanza industriale: motivo del viaggio, una beatificazione. Si è trattato di una eccezione, poiché proprio papa Ratzinger ha stabilito che solo alle canonizzazioni (da tenere a Roma) presieda il pontefice, mentre per il “primo grado” della santità, la beatificazione, proceda il vescovo del luogo. L’eccezione era giustificata: l’uomo da glorificare era il cardinale John-Henry Newman, non solo personaggio di grande importanza per la Chiesa tutta intera (e non unicamente per quella inglese del XIX secolo), ma anche molto caro a Joseph Ratzinger che più volte ha ricordato quanto debba al suo pensiero. Pure Giovanni Paolo II confessava il suo tributo verso di lui e, nel 2001, volle celebrare il secondo centenario della nascita scrivendo ai Vescovi di Gran Bretagna: «Egli giunse a una sintesi eccezionale tra fede e ragione, che per lui erano come due ali sulle quali lo spirito umano raggiunge la contemplazione della verità ». Sintesi di fede e di ragione: dunque, di particolare attualità e urgenza, sia per papa Wojtyla che per papa Ratzinger.
In questa serie “mariana” del nostro Vivaio è d’obbligo occuparci di Newman, poiché dobbiamo a lui un’opera autorevole, vigorosa (e ragionevole!) per dimostrare che è del tutto legittima, conforme alla fede evangelica, la dottrina della Chiesa di Roma sulla Vergine, compresi i dogmi via via proclamati. E che è pienamente giustificata la devozione che il popolo cattolico le tributa, malgrado esagerazioni e magari abusi dovuti al temperamento dei singoli Paesi ma che non riguardano la dottrina della Catholica. Il lavoro del nuovo Beato è straordinariamente prezioso, anche perché ci viene da colui che fu il più prestigioso teologo e pastore anglicano, convertitosi al cattolicesimo a 44 anni, ordinato due anni dopo sacerdote romano e, a 78 anni, creato cardinale.
È essenziale, per capire il valore della sua testimonianza, conoscere i tratti salienti della sua esistenza, lunga quasi novant’anni: egli stesso ne era consapevole e scrisse, infatti, una famosa autobiografia cui diede il titolo di Apologia pro vita sua e nella quale pensieri ed eventi sono strettamente intrecciati. Insomma, per capire che cosa abbia pensato Newman è necessario conoscere come abbia vissuto. Per questo, ho deciso di dedicare questa “puntata” a una sintesi della sua biografia e una prossima al suo pensiero mariano. Se mi è lecita una confidenza personale, sono lieto di dilungarmi un poco su di lui, avendone frequentato con gratitudine il pensiero e ammirando il suo stile cristiano di vita. Prima pastore, poi religioso filippino, infine cardinale, la sua alta, magra figura che le foto mostrano quasi sempre sorridente non ha nulla di clericale ma è quella di un gentleman elegante per istinto ed educazione. E la sua fede granitica, espressa in splendidi sermoni ed omelie, non è quella del teologo che parla ad altri teologi ma quella di un uomo moderno che vuol farsi comprendere da tutti, quasi con uno stile giornalistico di alta classe. Il giorno della sua beatificazione è stato per me gioioso, considerandolo come ulteriore riconoscimento di quanto gli debbano tutti i cattolici. E aggiungerò: l’interesse per lui mi è stato suscitato da una altro pensatore credente cui molto devo, Jean Guitton, le cui riflessioni sul teologo inglese sono, come sempre, illuminanti per comprenderne la modernità.
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Per venire ai tratti biografici: John-Henry Newman nacque a Londra, nel 1801,da un banchiere della City e da una donna che discendeva dai protestanti francesi, gli ugonotti, espulsi da Luigi XVI nel XVII secolo. Ambiente, dunque, di protestantesimo fervente dove fu allevato, come disse egli stesso, «nell’adorazione della Scrittura e nell’odio contro il papismo ». Da membro dell’alta borghesia della Gran Bretagna imperiale, ebbe l’educazione migliore, a Oxford, dove si impose subito all’ammirazione dei compagni e alla stima dei docenti con la sua intelligenza, la sua serietà morale, la sua fede. Alla fine degli studi universitari, decise di entrare nella carriera ecclesiastica della sua Chiesa, quella anglicana e, per dedicarsi interamente agli studi teologici e all’esercizio della carità intellettuale, decise di seguire il consiglio paolino rinunciando a sposarsi e ad avere una famiglia propria. Cosa rara, allora, nella Chiesa d’Inghilterra dove anche i vescovi e il Primate stesso erano ammogliati, quasi sempre con una prole numerosa. Non si pensi peraltro a una sorta di aridità sentimentale o a una lontananza dalle passioni: al contrario, fu sensibile agli affetti, coltivò per tutta la vita l’amicizia e il suo epistolario, cortese e spesso intimo con ogni genere di persone, riempie ben 30 volumi. Tra l’altro, coltivò anche la poesia e nei suoi versi la religione si intreccia talvolta, seppure con delicatezza, con l’amore. Non a caso, quando Leone XIII lo nominerà cardinale scelse come motto Cor ad cor loquitor, il cuore parla al cuore. Brillante parroco e poi ammirato cappellano degli studenti dell’ateneo da cui proveniva, con un gruppo di altri pastori e studiosi si dedica a pubblicazioni a difesa dell’anglicanesimo, visto da lui come “vera Chiesa” in quanto via media tra le “superstizioni papiste” e le “esagerazioni dei riformati”. Ma, attirato soprattutto dallo studio dei Padri, greci e latini, dei primi secoli (li leggerà tutti, in ordine cronologico e in lingua originale: impegno formidabile, per uno studioso solo) comincia il suo drammatico travaglio interiore. Uomo di grande onestà e rigore, predicatore della necessità di obbedire sempre e comunque alla voce della coscienza, quanto più studia e medita quegli Autori venerati, scopre che ciò che è nato dalla Riforma, Chiesa d’Inghilterra inclusa, non è altro che la reviviscenza di antiche eresie. Al contempo, cresce in lui la consapevolezza della «identità sostanziale, al di là di certe apparenze esteriori, del cristianesimo primitivo con il cattolicesimo romano», il quale ha sviluppato il dogma in modo legittimo, approfondendo sempre più la Scrittura. È con sgomento che deve accettare, poco alla volta, una simile scoperta: giovane poco più che trentenne aveva compiuto un viaggio in Italia, spingendosi sino alla Sicilia e scrivendo, al ritorno: «le superstizioni e i modi religiosi dei latini mi hanno disgustato». Tutto – in famiglia e nella sua comunità ecclesiale – era segnato da ripugnanza verso il “papismo”, tanto che il Pontefice di Roma era identificato senza esitazioni con l’Anticristo.
Fu nel 1839 che ebbe la prima intuizione che lo scosse profondamente e che lo portò ad anni di dubbi, seppur via via disciolti dal procedere dello studio e dalla ricerca, sino alla piena accettazione del sino ad allora esecrato e disprezzato cattolicesimo. Quasi con spavento gli crebbe dentro la consapevolezza che la Chiesa anglicana non era la vera Chiesa e dunque egli, difendendone la dottrina e il prestigio, si batteva per una causa sbagliata. Fu come folgorato da questa evidenza che non si attendeva affatto, studiando la storia del Concilio di Calcedonia: comprese che i monofisiti di quei secoli lontani erano i predecessori degli anglicani, i seguaci di Eutiche erano gli antenati dei protestanti, ma la verità stava dalla parte cattolica, quella del Papa, allora san Leone Magno, che difendeva la vera dottrina evangelica. Da qui il tormento tra la ragione, che pendeva sempre più a favore di Roma, e il sentimento, che gli rendeva troppo doloroso lo strappo con la Chiesa anglicana. In questa, tra l’altro, si sentiva a casa sua, inglese sino in fondo come era. Mentre tra i cattolici intuiva sì la verità, ma circondata da una religiosità popolare che gli sembrava superstiziosa e ricca di abusi, senza che il clero intervenisse con energia a stroncare le deviazioni.
Soprattutto condannabili gli parevano le “esagerazioni mariane” (certe statue, certe processioni, certe invocazioni, certi racconti di prodigi) che non solo ferivano i suoi gusti da gentleman britannico, ma gli sembravano vere e proprie offese alla Vergine, che di certo non gradiva quel tipo di culto e di devozione. Era dunque per amore di Maria, la “vera”, l’evangelica, che avrebbe voluto stroncare quelle che gli sembravano intollerabili “enormità” cattoliche. La Vergine, per lui, era sfregiata in doppio modo: con gli abusi della devozione e con la teologia che aveva costruito una “mariologia” abusiva, una sorta di escrescenza della fede primitiva perché senza sufficienti basi bibliche.
Lacerato dal dubbio, tentò una soluzione: cercò di mostrare – a sé e agli altri – che, sul piano dottrinale, anglicanesimo e cattolicesimo professavano la stessa fede, seppure con accentuazioni diverse. Pubblicò, quindi, un tract, un opuscolo, in cui si proponeva di mostrare che il Credo anglicano, espresso dai famosi “Trentanove articoli” della fine del Cinquecento, coincideva nel fondo col Credo cattolico così come espresso dal concilio di Trento. Ma questo era troppo persino per la tollerante High Church, l’ala più vicina al cattolicesimo e ben 42 vescovi condannarono quel suo tentativo. Insomma, non era possibile far convivere le due fedi come se fossero una sola, occorreva una scelta radicale. Uomo di rigore e di esigente coscienza, incapace ormai di continuare il ministero anglicano e al contempo ancora reticente a bussare alle porte di Roma, Newman si dimise da ogni incarico sia ecclesiale che universitario e si ritirò in un piccolo villaggio vicino ad Oxford. Qui, per quattro anni, visse quasi da eremita, visitato solo da qualche amico che condivideva la sua ricerca, dandosi alla preghiera e allo studio e affidandosi al Cristo perché gli mostrasse quale fosse la comunità dove meglio era riconosciuto e adorato in verità e fedeltà al Vangelo. Finalmente, dopo tante ricerche e meditazioni, si convinse in modo inequivocabile che la vera Chiesa era quella cattolica e che il suo sviluppo dottrinale (a cominciare da quello mariano) era legittimo, anzi doveroso, in quanto quella Chiesa era scesa sino in fondo nella Verità rivelata e aveva lavorato a una maggiore comprensione della dottrina attraverso il tempo, seppur sempre in coerenza con il Vangelo. Allora, nella sua radicale onestà, affrontò il distacco doloroso, recidendo i legami con l’amata Chiesa anglicana, con gli altrettanto amati studenti di Oxford, con molti amici che guardavano con sgomento il suo passaggio al “papismo”. Il 9 ottobre del 1845 entrava ufficialmente nella Chiesa cattolica che allora, in Inghilterra, non godeva neppure di tutti i diritti civili e politici ed era ben poca cosa, composta soprattutto da miseri immigrati irlandesi. Era, in ogni caso, circondata da un sospetto e da un disprezzo che non erano certo tali da attirare un raffinato signore, un pastore stimato, un teologo celebre, uno scrittore acclamato come John Henry Newman.
Ebbe tra l’altro la ventura di essere accolto nella Catholica da un santo, il padre passionista Domenico della Madre di Dio che, seguendo una esperienza mistica che lo aveva chiamato a lavorare per il ritorno dell’Inghilterra al cattolicesimo, lo aveva seguito nella preparazione al gran passo. Ed è significativo che quel futuro santo, dando notizia a Roma della conversione di Newman, lo definì «il papa degli anglicani, il grande oracolo di questa Nazione, l’uomo più dotto di tutta la Gran Bretagna».
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Dopo la conversione – lacerante eppure lieta – continuò ad approfondire la verità che aveva ritrovato e volle anche vivere concretamente i principi della fede nuova. Anzi, antica, visto che la sua scoperta era proprio questa: il cattolicesimo, ed esso solo, era il legittimo discendente e custode della fede degli Apostoli. Proprio per essere vicino ai sepolcri di Pietro e Paolo andò a Roma, dove frequentò l’Ateneo di Propaganda Fide e dove fu ordinato sacerdote nel maggio del 1847. Già aveva ricevuto, molti anni prima, l’ordinazione anglicana ma questa non era giudicata valida da Roma. Dopo molta preghiera e riflessione, come gli era solito, decise di farsi religioso nell’Oratorio di san Filippo Neri, trovando in esso quella gioia e libertà che aveva sempre cercato. Con l’approvazione e la benedizione di Pio IX trapiantò l’Oratorio in Inghilterra, cominciando da Birminghan in quanto era la città più bisognosa di carità, perché quella dove maggiore era l’industrializzazione, con la miseria spirituale e materiale che ne conseguiva. Da quella casa, per circa 40 anni, non si mosse quasi mai, vivendo come un monaco, studiando e scrivendo ma sovrintendendo anche alla scuola dei Filippini per i figli degli operai. Sola assenza rilevante fu quella per recarsi a Dublino a cercare di fondare una Università cattolica: ma lui pensava a un autentico ateneo, dove l’ortodossia convivesse con la libertà e la devozione con il rigore scientifico, mentre ciò che l’episcopato desiderava era, in fondo, un grosso seminario.
La sua serenità di fondo – che gli derivava dalla fede e che era favorita dal temperamento in cui non mancava il tipico humour britannico – fu continuamente minacciata da due opposti fronti. Gli anglicani, come prevedibile, non si rassegnavano al fatto che il loro teologo più prestigioso fosse passato tra gli invisi “papisti”. Non solo dubitavano della sua conversione, ma le attribuivano i motivi più sordidi. Quanto ai cattolici, non tutti erano contenti di avere tra loro quel fratello inaspettato e i più sospettosi (e tra loro qualche vescovo del Paese) lo consideravano pericoloso, una sorta di infiltrato venuto per portare nella Chiesa errori protestanti abilmente travestiti. È per rispondere agli uni e agli altri, con carità ma con chiarezza e passione, che Newman scrisse quell’Apologia pro vita sua che anche i non cattolici apprezzarono, trasformando sospetti e invettive in un silenzio rispettoso. Quanto ai cattolici, ecco giungere la decisione di Leone XIII di nominarlo cardinale quando ormai andava per gli ottant’anni, anche se gliene restavano ancora più di dieci da vivere. Il Papa gli riconosceva “genio e dottrina”, oltre che ortodossia e gli concesse quanto il neoporporato gli chiedeva: non muoversi, cioè, dal suo amato e tranquillo Oratorio di Birminghan per continuarvi la preghiera, lo studio, la direzione spirituale. È ben nota l’iscrizione latina che volle sulla pietra del suo semplice sepolcro: Ex umbris et imaginibus in veritatem.
Ma, per venire finalmente a quanto più qui ci interessa, cioè la riflessione su Maria: nel 1865, cioè vent’anni dopo il passaggio al cattolicesimo, un suo vecchio amico, il pastore Edward B. Pusey, pubblicava un libro che, proprio in nome dell’incontro ecumenico che auspicava tra Chiesa anglicana e cattolica, attaccava ciò che secondo lui era l’ostacolo maggiore, la teologia e la devozione alla Vergine. Pusey denunciava, poi, come abusiva e contraria al dialogo tra i cristiani la definizione dell’Immacolata Concezione fatta da Pio IX undici anni prima. Queste cose toccavano Newman sul vivo, avendole vissute, sofferte e infine risolte di persona. Di getto, dunque, scrisse quella Lettera al rev. Pusey che resta una delle migliori apologie del posto che Maria ha nella Chiesa. È proprio di questo che, a Dio piacendo, parleremo nel nostro prossimo appuntamento.
IL TIMONE N. 104 – ANNO XIII – Giugno 2011 – pag. 64 – 66