Il termine “coscienza”, nella lingua italiana, ha essenzialmente due significati: la “consapevolezza di sé”, cioè l’io, oppure quella facoltà interna che ci fornisce il senso del bene e del male concernente le nostre azioni. Appare ovvio che è di quest’ultima che si occupa la teologia morale, anche se essa sussiste a causa della prima: l’essere umano è munito di coscienza morale proprio perché ha un io.
Oltre alle leggi esterne (civili o religiose) esiste innata in ciascuno una norma interna in grado di valutare, anche se non perfettamente, il peso morale delle nostre azioni. La coscienza non è, come molti ritengono, semplicemente l’organo del rimorso, ma è l’organo di valutazione del bene e del male.
Come insegna il Catechismo della Chiesa cattolica, «La coscienza morale è un giudizio della ragione mediante il quale la persona umana riconosce la qualità morale di un atto concreto che sta per porre, sta compiendo o ha compiuto. In tutto quello che dice e fa l’uomo ha il dovere di seguire fedelmente ciò che sa essere giusto e retto» (n. 1778).
La norma interna della coscienza è retaggio di ciò che eravamo, memoria della nostra effige. Ci permette di avvertire quanto manca al riallineamento dei due piani, ci fa percepire le nostre azioni come convergenti o divergenti rispetto alla nostra immagine autentica, che è quella di figli di Dio creati a somiglianza del Padre. Ecco perché conserviamo questo sesto senso che ci avverte se una cosa stona rispetto alle leggi di Dio, anche quando non le teniamo presenti o non le abbiamo nemmeno conosciute.
La teologia morale da sempre illustra i due aspetti della legge, quella interna e quella esterna, o indica come punti di riferimento al comportamento umano la norma soggettiva (la coscienza) e la norma oggettiva (i comandamenti, la rivelazione).
In realtà, originariamente, e secondo i piani di Dio, non vi era separazione fra i due ordini di legge. Ed anche tuttora, sebbene non sempre lo avvertiamo, le leggi di Dio sono ancora impresse nei nostri cuori. La rivoluzione morale compiuta da Cristo consiste appunto nell’educarci a riscoprire “la legge impressa nei cuori”.
La coscienza, lasciata a se stessa, è uno strumento assai fragile, troppo esposto agli errori dell’educazione, delle culture, dei diversi condizionamenti sociali. Molti pensano che basti agire “in buona fede”. Questo, forse (e nemmeno sempre), ci può evitare di compiere un peccato, ma non ci risparmia dall’errore oggettivo e dai danni che ne derivano. Ecco pertanto che alla coscienza non basta essere in buona fede, occorre anche essere in buona verità: è ciò che la teologia morale definisce coscienza vera. Nel caso di quella madre, forse bastava leggere meglio le istruzioni del farmaco o consultare un medico, ma è per tutte le azioni che compiamo nella vita che occorre un parametro oggettivo per misurare la bontà dei nostri atti.
Se voglio tagliare la misura giusta di un pezzo di stoffa, uso un metro, ma se ho il sospetto che il mio metro si sia deformato posso sempre confrontarlo con quello degli altri, e se ho motivo di ritenere che anche quello degli altri si sia deformato, posso sempre confrontarlo col metro ufficiale esposto a Parigi. E qual è lo strumento di misura delle nostre azioni, il nostro “metro etico”? La coscienza; ma questa, come abbiamo detto, può essere deformata; certo, possiamo sempre confrontarla con quella degli altri, ma se cerchiamo un criterio oggettivo, che cioè non venga dagli uomini ma da Dio, allora ci confrontiamo con la Sacra Scrittura, come è interpretata dalla Chiesa. Dio si è rivelato proprio perché avevamo
perso la nostra immagine e i nostri punti di riferimento, proprio perché il nostro metro interno, spesso deformato, non bastava. Nella Rivelazione, come davanti a uno specchio, abbiamo la possibilità di capire qual è la nostra vera forma, e di riappropriarcene tramite le buone azioni, orientando il nostro agire verso il bene.
IL TIMONE N. 87 – ANNO XI – Novembre 2009 – pag. 61