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14.12.2024

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Cristiano, cioè sportivo. Sportivo, cioè cristiano
4 Giugno 2014

Cristiano, cioè sportivo. Sportivo, cioè cristiano

È stretto il rapporto tra fede e sport. In un’epoca preda del nichilismo riscopriamo il valore profondo dell’attività agonistica: gareggiare con lealtà, impegno e rispetto degli altri è metafora della vita

 

 

 

In un mondo che ogni giorno sembra sprofondare nel vuoto, nel nulla, privo di significato, vittima della dittatura dei desideri, senza chiari e definiti punti di riferimento, lo sport – in tutte le sue varie accezioni e caratterizzato da senso del limite, impegno personale, regole da seguire e rispetto dell’avversario – può costituire un punto di resistenza, una possibilità di risalire la china e ricostruire l’umano.

 

Domina la trasgressione

Viviamo in un contesto culturale di evidente relativismo, cioè di negazione della verità oggettiva. Da qui quella che viene definita «la morte dei valori». La parola “valore” deriva da “valeo”, verbo latino che significa “esser forte”. Dunque, è valore ciò che è forte dinanzi al tempo e al divenire. Valore è ciò che dura, che rimane stabilmente, che non cambia, che non subisce modifiche. Perciò, se tutto è relativo, se non esiste una verità oggettiva perenne, viene meno la ragione metafisica del “valore”. Relativismo filosofico e valori sono incompatibili. Delle due, l’una. O si accetta il relativismo filosofico e si rinuncia ai valori o il contrario: tertium non datur, non c’è una terza possibilità. Quello che oggi si nota non è solo la frequenza della trasgressione, ma soprattutto la perdita del senso della trasgressione. Molti scelgono comportamenti immorali senza porsi il problema del reato e della immoralità. Per dirla cristianamente: si pecca senza più preoccuparsi di peccare; si è perso il senso del peccato. In un’atmosfera di questo tipo bene e male sono divenuti categorie intercambiabili: non esiste un bene che possa essere riconosciuto oggettivamente come tale e non esiste un male che possa anch’esso essere riconosciuto oggettivamente come tale.

 

Il desiderio di infinito

Ciò che è bene oggi potrà non esserlo domani e ciò che era male ieri può non esserlo oggi. Il relativismo è un cancro; è una malattia gravissima che mina tutto l’uomo: il suo modo di ragionare e il suo comportamento. Da qui il dovere di adottare delle terapie. La prima è quella di ricostruire la consapevolezza del proprio limite. Una consapevolezza però appassionante. L’uomo non solo deve riscoprirsi limitato, ma deve anche appassionarsi a questo limite. Deve capire che se il limite è un dramma (nel senso che pone “drammaticamente” la questione del rapporto tra il desiderio di infinito e la constatazione della propria finitudine), non è però una tragedia, non può cioè tradursi in un’occasione di disperazione. Al limite c’è la risposta, c’è la risposta dell’apertura del cuore al mistero, c’è la risposta religiosa.

In questo lavoro di ricostruzione lo sport può avere un ruolo decisivo, soprattutto per gli adolescenti. Un ruolo addirittura insostituibile. Lo sport ha successo proprio perché è metafora della vita. La sua universalità sta proprio in questo. Lo sport richiama il senso profondo dell’esistere, con i problemi, le ansie, i desideri di vittoria e di realizzazione. Lo sport è importante in questa opera di ricostruzione soprattutto per due motivi: 1. Perché si fonda sul concetto di “ordine”. 2. Perché si fonda sul concetto di “agonismo”.

 

Lo sport si fonda sul concetto di “ordine”

L’elemento dell’ordine non è un optional nello sport, ma è sostanza. Non c’è sport senza regole, senza un regolamento ben preciso. E queste regole non vengono decise di volta in volta a piacimento, ma devono essere oggettivamente accettate. L’atleta non costruisce le sue regole al momento, bensì deve attenersi a ciò che è stato precedentemente deciso. Altro che relativismo e soggettivismo! Altro che uomo che si crede fondamento di tutto! L’uomo impara dallo sport che cos’è la vita. Impara ad accettare un reale che gli si impone e che non può ricostruire a piacimento. Impara ad accettare un giudizio al di sopra di sé. L’allora cardinale Joseph Ratzinger, in un testo degli anni Ottanta, riferendosi al gioco del calcio scrisse: «Il calcio insegna uno scontro pulito in cui la regola comune alla quale il gioco si sottomette continua ad essere ciò che unisce e vincola anche nella posizione di avversari. (…) La libertà vive della regola, della disciplina che impara l’agire congiunto e lo scontro corretto, l’essere indipendente dal successo esteriore e dall’arbitrarietà, e in questo modo arriva ad essere realmente libero».

 

Lo sport si fonda sul concetto di “agonismo”

L’agonismo rimanda alla “gara”, alla “vittoria”. Lo sport non è pura esibizione. La vita vera, infatti, non è “spettacolo” ma sfida, gara. Ci sono due frasi molto citate, ma che andrebbero messe radicalmente in discussione. La prima è del drammaturgo tedesco Bertolt Brecht (1898-1956), che in Vita di Galileo mette in bocca al celebre scienziato le parole: «Beato il popolo che non ha bisogno di eroi». Frase da respingere, perché non solo è vero il contrario, cioè è bello un mondo che ha bisogno di eroi, ma è anche umanamente vero che ogni uomo debba tendere verso l’eroismo, perché è aspirazione all’ideale e, senza l’ideale, l’uomo si costringe nella pochezza mortificante della quotidianità, del “volare basso” che non corrisponde al desiderio che alberga nel cuore. Il mondo ha bisogno degli eroi (i veri eroi sono i Santi). Si potrebbe però obiettare: Gesù esalta i miti di cuore. Certo. Attenzione però: essere miti non vuol dire essere pusillanimi. A differenza del pusillanime, che riduce codardamente la propria vita in una vile resa, il mite sceglie la pacificità e la pazienza nella e per la sequela di Cristo; e così, con Cristo, volontariamente accetta il sacrificio. Il pusillanime fugge, il mite accetta. Il pusillanime indietreggia, il mite testimonia. Il pusillanime nasconde il volto, il mite porge il volto agli insulti. Il pusillanime si blocca per la paura, il mite agisce costi quel costi. Come l’atleta vero che dona tutto se stesso nella gara, che profonde tutte le sue energie per raggiungere il traguardo desiderato.

La seconda frase discutibile – e qui torniamo più specificamente in argomento – è quella resa famosa da Pierre de Coubertin (1863-1937), il creatore dei Giochi Olimpici moderni: «L’importante non è vincere, ma partecipare». Ebbene è una frase, questa, che a differenza di ciò che solitamente si pensa, suona in realtà come una sorta di tradimento dello sport. Dipende anche da come la si interpreta. Se per sport si intende il fatto che nessuno si deve sentire escluso e che già partecipare è molto importante, parole di questo tipo vanno anche bene. Tenendo conto del fatto che la frase di de Coubertin, ripresa dal vescovo episcopaliano Ethelbert Talbot (1848-1928), prosegue così: «La cosa essenziale non è la vittoria, ma la certezza di essersi battuti bene». Ma se a questa frase si dà un’interpretazione massimalista, quasi di svilimento della tensione agonistica, come se l’agonismo fosse secondario, allora diviene di fatto un tradimento dell’essenza dello sport. D’altronde la vita è così: o ci si realizza o si fallisce, o si vince o si perde. Chi fallisce nella sua vita difficilmente potrà consolarsi di aver solo partecipato.

 

L’uomo ha bisogno di vincere

Nel Libro di Isaia (45,22) è scritto: «Solo nel Signore si trovano vittoria e potenza! ». Dunque l’uomo deve aspirare alla vittoria; certamente e immancabilmente con il Signore, ma non può non aspirare alla vittoria. Il desiderio di vittoria va inteso nel senso che non si può parlare di ricerca della felicità che non sia anche desiderio di vittoria. L’uomo non è un “pezzetto” di un tutto che dovrebbe convincersi dell’illusorietà della propria individualità (come affermano le concezioni monistiche e panteistiche di quelle religioni orientali che tanto affascinano l’uomo contemporaneo), ma una realtà organica di spirito e di corpo in cui l’individualità è elemento sostanziale. Nell’antropologia naturale e cristiana l’uomo rimarrà individuo per l’eternità. La felicità completa, che si otterrà in Paradiso, è la piena realizzazione della persona.

Ora, la realizzazione non può prescindere dal dominio di due categorie: quella del tempo e quella della concupiscenza. Il dominio del tempo vuol dire conquistare l’eterno, convincersi cioè che ciò che accade nel divenire temporale non verrà irrimediabilmente perso; che il proprio esistere, il proprio pensare, i propri affetti, tutto il proprio umano saranno conservati in eterno… sempre che si vincerà, cioè sempre che si conquisterà la vita eterna beata. Il dominio della concupiscenza vuol dire vincere se stessi rimanendo se stessi, anzi facendo trionfare il vero “sé” su ciò che si è aggiunto successivamente a contaminare la propria natura: la concupiscenza, infatti, è una delle conseguenze del peccato originale. Entrambi questi domini hanno bisogno di volontà di vittoria, cioè di conquista e quindi di una necessaria spiritualità di militanza! Il cristiano non solo può, ma deve combattere. Non si può essere cristiani senza il desiderio di affrontare coraggiosamente l’avventura della vita, che è poi avventura della prova. Il Signore Gesù lo dice chiaramente: «Il Regno dei Cieli patisce violenza e solo i violenti potranno ereditarlo» (Matteo 11,12). Senza violenza sulla propria concupiscenza non si può andare in Paradiso. Sant’Ignazio di Antiochia diceva che ogni mattina, scendendo dal letto, sapeva di entrare nell’arena; e lui poi nell’arena offrì la sua vita per Cristo. Da questo punto di vista molto significativo era lo “sport” nel Medioevo. I palii e le giostre non conoscevano il riconoscimento del secondo, del terzo e così via. Veniva premiato solo il primo. Gli altri, dal secondo in poi, risultavano tutti ultimi. Il secondo non poteva pavoneggiarsi nei confronti del terzo, perché arrivare secondo o arrivare ultimo era la stessa cosa. Anche questo era metafora di una mentalità in cui forte era la fede nell’escatologia cristiana. La vita è fatta per conquistare il Paradiso.

 

Il Cristianesimo e il valore educativo dello sport

Non è un caso, quindi, che il Cristianesimo sia la religione che meglio abbia capito il valore dello sport per l’educazione, perché è la religione che più si fonda sul concetto di “agonismo”. Basti pensare all’importanza della libertà personale, all’importanza che l’uomo meriti la vita divina in sé (la Grazia) e all’esito ultraterreno che dipende dalle scelte che l’uomo compie. Lo sport, infatti, non ammette deleghe: deve essere l’atleta a gareggiare, è lui che deve sentirsi il peso e l’onore della gara, è a lui che compete lo sforzo per raggiungere un traguardo che si configura come dono, cioè come qualcosa che va ad arricchire la vita. Lo stesso afferma il Cristianesimo allorquando concepisce l’uomo libero dinanzi alla scelta morale, ben sapendo che poi, relativamente a questa scelta, ne verranno le conseguenze: la beatitudine eterna se si sceglie il bene, la dannazione eterna se si sceglie il male. Quanta differenza rispetto al fatalismo precristiano o a certo fatalismo presente in maniera più o meno accentuata in un cristianesimo spurio come quello protestante, nell’islam stesso o – con ancor più evidenza – nelle cosiddette religioni orientali. Per i “maestri di spirito” cristiani, la vita è invece una “battaglia spirituale”. Bisogna lottare e prepararsi continuamente al sacrificio e alla responsabilità personali.

 

 

 

 

Ricorda

 

«Non sapete che, nelle corse allo stadio, tutti corrono, ma uno solo conquista il premio? Correte anche voi in modo da conquistarlo! Però ogni atleta è disciplinato in tutto; essi lo fanno per ottenere una corona che appassisce, noi invece una che dura per sempre. Io dunque corro, ma non come chi è senza mèta; faccio pugilato, ma non come chi batte l’aria; anzi tratto duramente il mio corpo e lo riduco in schiavitù, perché non succeda che, dopo aver predicato agli altri, io stesso venga squalificato».

(San Paolo, Prima Lettera ai Corinzi 9, 24-27)

 

 

 

 

 

 

Per saperne di più…

 Corrado Gnerre, che insegna Antropologia filosofica all’Università Europea di Roma e Storia della Filosofia e Storia delle Religioni alla Pontificia Università teologica dell’Italia meridionale di Benevento, è autore di un saggio simpatico e colto al tempo stesso, Il catechismo del pallone (Mimep Docete, € 8, con prefazione di Giovanni Trapattoni), che aiuta a riscoprire i fondamenti della fede cattolica attraverso «il gioco più bello del mondo».

 

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