Le origine della rivoluzione del 1959 che ha fatto di Cuba uno degli ultimi paesi comunisti. La spietatezza di Che Guevara e la responsabile “debolezza” del giovane Fidel Castro.
Cuba, un tempo l’isola più opulenta di quelle collocate fra Le Grandi Antille, nel mar dei Carabi, a soli 180 chilometri dalla Florida, fu l’ultimo possedimento del vice reame imperiale spagnolo del Nuovo Mondo a conquistare l’indipendenza nel 1899, a conclusione della guerra ispano-americana. Dal 1903 gli USA installarono una base militare a Guantanamo, tuttora esistente, ed esercitarono fino al 1916 il diritto d’intervento armato e d’ingerenza nei suoi affari interni.
La produzione della canna da zucchero e del tabacco, dei minerali d’alto pregio per l’industria moderna come il rame ed il nikel, fu sempre ai primi posti delle graduatorie mondiali.
Anche il commercio e lo sfruttamento degli schiavi come mano d’opera nell’industria zuccheriera arricchì la borghesia creola illuminata cubana, insieme a quella inglese, che conquistò l’isola con uno sbarco nel 1762 sconfiggendo la flotta francese. Fino a tutto il 1820, data ufficiale della abolizione della schiavitù, la popolazione negra o mulatta d’origine africana rappresentava il 16 per cento dell’intera popolazione, determinandone la memoria d’oppressione e di riscatto che è storicamente propria della cultura cubana.
La maggiore aspirazione civile e politica della popolazione a maggioranza cattolica borghese di Cuba è stata, per tutto 1’800, un forte spirito indipendentista e nazionalista, non contro la Spagna ma innanzitutto contro gli Stati Uniti, il cui “gangsterismo” aveva trovato fertile terreno d’azione nell’isola.
Un patriota idealista moderato, a nome José Martì, aveva diretto la lotta per la conquista, nel 1895, della Repubblica, incarnando l’anima radicale di Cuba, il suo antiamericanismo e vetero anticapitalismo.
In esso sta la radice del presente degenerato, tirannico e disumano, della vicenda cubana dal 1959 ad oggi.
Dal 1934 al 1959, un militare modestamente evoluto, Fulgencio Batista y Zalivar, sergente stenografo, che era riuscito a conquistare la fiducia dei ceti imprenditoriali e affaristici, terrorizzati dal disordine e dall’inquietudine per le oscillazioni del prezzo internazionale dello zucchero, riuscì ad egemonizzare la vita politica, presentandosi come un suo stabilizzatore istituzionale e militare.
Batista si mostrò malleabile con il Partito comunista di Cuba, che era da molti anni una realtà organizzata ed era stato per un lungo periodo fuorilegge.
Prima fu consentita la pubblicazione dell’organo ufficiale, “Hoy”, e successivamente promossa l’esistenza legale del Partito guidato da un poeta, Juan Marinello, che io stesso ebbi l’occasione di conoscere in una circostanza congressuale, assieme al segretario d’organizzazione, Anibal Escalante, noto per la impetuosa oratoria. Nel 1935, Togliatti aveva suggerito di stringere alleanze con le “forze borghesi” secondo il nuovo corso della linea politica del Komintern, quella dei” Fronti popolari” dei partiti e di conseguenza dei sindacati: le organizzazioni operaie divennero più potenti e i datori di lavoro costretti per la prima volta a cedere. Questo primo passo fu un evento storico dal quale altri sarebbero derivati con l’andare degli anni. Tra violenze, illegalità, malcostume e oscure manovre elettoralistiche, trascorsero alcuni presidenti della Repubblica dai connotati incerti, come Machado particolarmente efferato, Grau San Mar tin, Socarras, quando un nuovo golpe introdusse il “secondo Batistato”. La rivista americana “Time” pubblicò il volto circonfuso da un’aureola fiammeggiante del dittatore con la luminosa dicitura “Batista porta la democrazia a Cuba”. Non era vero: ma il raccolto dello zucchero aveva superato i 7 milioni di tonnellate e la pace sociale sembrava assicurata dalla compartecipazione del Partito comunista sotto la guida di Blas Roca, astuto mediatore fra collaborazionismo complice della illegalità e richiami declamatori all’ordine.
Il 26 luglio 1953 scattò un primo allarme contro la coalizione al governo che in modo spurio, sinistra estrema coalizzata con un governo di destra militarzuccheriera, deteneva il potentato repubblicano.
Si presentò come una rivolta minoritaria anarchico piccolo-borghese il cui capo era, all’epoca, “assai lontano dai comunisti”, pur essendo lettore appassionato di Lenin, ma, soprattutto, “fanatico di Martì” liberatore. Apparteneva alla famiglia di un immigrato spagnolo divenuto proprietario terriero, era nato nel 1927, avvocato di fresca laurea e militava nelle file del movimento studentesco del” Partito ortodosso” di chiara dislocazione non proletaria, anzi non ideologica, borghesemente sciovinista. Il suo nome è Fidel Castro, che aveva fino ad allora mescolato comizi antigovernativi con sparatorie e che aveva puntigliosamente pensato non più solo ad azioni dimostrative ma a scontri militari. Il 26 luglio 1953 egli organizzò un assalto con 150 elementi alla caserma Moncada di Santiago de Cuba, scegliendo una data che avrebbe dovuto garantire una scarsa vigilanza da parte della guarnigione distratta dal carnevale.
L’azione si risolse in un fallimento. La maggior parte dei ribelli fu giustiziata.
Castro venne arrestato ed imprigionato fra gli ultimi. Lo difese a viso aperto, strenuamente, l’Arcivescovo di Santiago. Il giovane avvocato provvide da solo alla sua difesa, brandendo la spada retorica ma efficace dell’orazione anticoloniale in quello scritto che diverrà la base programmatica del neonato “Movimento 26 luglio”, e fornirà la piattaforma politica di un’azione destinata ad andare più lontano delle proprie premesse e della propria impostazione indefinita.
Forse, fu esattamente questa indefinitezza iniziale, voluta o risultata di fatto, ad assicurare un postumo, ma pur sempre risicato, successo dell’iniziativa tipica per Cuba: la vaghezza delle intenzioni, l’anticolonialismo tradizionale, le divisioni interne che si rivelarono la sua imprevista ricchezza e adattabilità.
Il Partito comunista si tenne sulle prime in disparte, esibendo una posizione legalitaria non barricadiera, in tal modo regalando al Movimento tutto il ruolo crescente dell’opposizione a Batista.
Una serie di circostanze, di sottovalutazioni o entusiasmi fuori luogo per l’inesistente democrazia “batista” agirono da freno e disattenzione da parte dell’Amministrazione americana, a tutto vantaggio del castrismo. Esso andò rapidamente impinguandosi. Una felice scorreria di conferenze e incontri, consentitigli in USA, fruttò al promettente legale una forte somma di finanziamenti.
Il vero, autentico ispiratore e fattore della rivoluzione comunista di Cuba appare sulla scena in luglio e incontra Castro e suo fratello Raul in un villaggio messicano dove si vanno organizzando gli scampati della Moncada. È un medico argentino, di Rosario, di famiglia più che agiata, ammalato d’asma che lo fa soffrire e gli appesantisce i movimenti.
Si chiama Ernesto Guevara, detto “Che” a causa del suo tipico intercalare rioplatense. La sommossa con lui si qualifica e trasforma in spietata macchina rivoluzionaria non più borghese ma nettamente proletaria, “campesina” ed operaia. La chiave di lettura della vicenda terroristica dell’isola sta in questo personaggio dall’aria triste e sofferente, in questo maoista filo-cinese che non guarda in faccia nessuno, si immola per i propri ideali fatalistici e immaginari, che grondano sangue. Egli viene subito arruolato dai fratelli Castro, ne diventa il mentore astuto e riesce a conquistare l’anima profonda del sistema operativo.
Il 1959 è l’anno della vittoria. Il 2 gennaio i guerriglieri, che non superano le duemila unità, contrapposte ad un esercito di 30.000 elementi, schierato con Batista, entrano a L’Avana e occupano la fortezza La Cabana. Vi viene subito allestito, come emblema del nuovo regime, un carcere di massima sicurezza che insieme ai reclusori di Villa Marista, Boniato, Kilo, Nueva Vida, Palos, Tres Racios de Oriente, Nueva Carceral del Est, trattengono, processano sommariamente detenuti civili e militari, seviziano sacerdoti e uomini di Chiesa in numero di 131. Oltre ventimila sono i prigionieri di guerra catturati nella Sierra dell’Escambray e a Las Villas, dei quali si calcola che circa dieci mila vengono passati per le armi a Loma de Los Loches, come Monsignor Jaime Ortega. Castro è il volto presentabile dei “Barbudos” insorti. Il Che, dichiarato per decreto urgentissimo del nuovo Governo rivoluzionario del 9 febbraio “cittadino cubano”, comandante in seconda dell’Esercito ribelle, quello repressivo. Come primo Procuratore militare, egli detta le norme del Regolamento carcerario e ne programma l’intero sistema, in ossequio e in gloria di quel suo concetto “dell’odio distruttivo che fa dell’uomo un’efficace, violenta, selettiva, fredda macchina per uccidere”. Lo riferisce testualmente Régis Debray, il francese sessantottino che molto ha scritto e meditato su di lui, dopo averlo seguito in Bolivia. Guevara è l’ideatore e l’organizzatore, nel 1960, del primo “campo di lavoro correzionale”, dove venivano spediti anche i semplici renitenti o “svogliati” sul lavoro. Omosessuali, adolescenti, ragazzi di 15 anni o poco più, intellettuali e letterati” inutili alla Rivoluzione”, ecclesiastici perseguitati, vengono ammassati all’aperto sulle spiagge dell’Arcipelago Camaguey e lasciati sotto le intemperie tropicali.
Il Che non aveva mai fatto mistero delle sue disposizioni. Lo scrittore Paco Ignacio Taibo Il, nato in Spagna, dimorante nel Messico, ha scritto nel suo libro (” Senza perdere la tenerezza”, del 1966), che pure è molto tollerante nei confronti del medico argentino, che il Che era solito ripetere come massima pedagogica: “Prendete il fucile e sparate alla testa di ogni imperialista che abbia più di quindici anni”. Lo stesso giornalista-saggista che egli fu “dogmatico, freddo, intollerante; non ha nulla da spartire con la natura calorosa e aperta dei cubani” e aggiunge che il medico che sapeva far soffrire acutamente i dissenzienti e i prigionieri fu “il più violento tra i praticanti del socialismo”. Nel decalogo dei detenuti politici il Che elencò diligentemente che essi dovevano venir costretti a “partecipare nudi alla cosiddetta cuadrilla [gruppi di 40 persone comandati da un sergente o un tenente] dei lavori agricoli; venire immersi per ogni infrazione nei pozzi neri; tagliare l’erba con i denti; salire le scale con le scarpe zavorrate di piombo”. A lui scrittori del dissenso cubano addebitano nel corso degli anni ’59-’60 d’aver giudicato e fatto fucilare 381 prigionieri. Sue sono le famigerate celle chiamate “ratoneras” (buche per topi), “gavetas (gabbie), “tostadoras” (tostapane), “tapiadas” (con grate strettissime), come ha documentato la rappresentante provvisoria di Cuba all’Unesco, Martha Frayde.
Descrivendo questi fatti atroci e incontrovertibili non racconto tutta la rivoluzione cubana. Essa fu ben altro, ancora e di più. Non assolvo Castro ma ne asserisco la debolezza, la colpevole corresponsabilità, la consenziente disumanità, l’amaro gorgo comunista nel quale egli volle precipitare. Nel 1958, egli proclamò solennemente dinanzi alla tomba di uno dei suoi compagni trucidati “che non sarebbe stato o diventato mai comunista”, che “il diritto a Cuba di dissentire e di fare opposizione era un diritto inalienabile”, che il suo Movimento del 26 luglio” non sarebbe stato mai un partito unico totalitario” .
Egli è stato smentito dai fatti, ha smentito se stesso. La violenza della sua dittatura, esportata in Africa, in Angola nel 1975, e in Etiopia nel 1980, della sua intolleranza, invano condannata da Giovanni Paolo II, è cronaca di ieri e di oggi. Guevara ne è l’architrave dissimulata, l’inesorabile kamikaze. Pietà per la sua morte.
Cronologia sommaria
1 gennaio 1959. Batista fugge da Cuba. L’8 gennaio Castro e i barbudos entrano trionfalmente a L’Avana.
Giugno 1959. Castro decide di annullare il progetto di libere elezioni, che aveva promesso di indire entro diciotto mesi.
1959-1962. Il regime si dota di un “Dipartimento della Sicurezza di Stato” (DSE), denominato dai cubani la “Gestapo rossa”, con l’incarico di infiltrarsi tra gli oppositori del regime e procedere alla loro eliminazione.
Autunno 1960. Vengono arrestati gli ultimi rappresentanti dell’opposizione politica e militare. Alcuni sono fucilati. Quasi 50.000 persone appartenenti alla classe media che aveva sostenuto la rivoluzione fuggono da Cuba.
17 aprile 1961. Fallisce una spedizione di esuli anticastristi, organizzata e finanziata dai servizi segreti americani (sbarco alla Baia dei Porci).
Maggio 1961. Vengono chiusi tutti i collegi religiosi e le loro sedi confiscate. 17 settembre 1961. Vengono espulsi da Cuba 131 sacerdoti diocesani e religiosi. La Chiesa è perseguitata.
Anni ’60. Secondo” Il libro nero del comunismo”, il bilancio della repressione castri sta negli anni Sessanta conta da 7.000 a 10.000 persone passate per le armi e circa 30.000 prigionieri politici.
Aprile 1980. Migliaia di cubani invadono l’ambasciata del perù a L’Avana cercando un visto per lasciare l’isola. Dopo diverse settimane, Castro permette a 125.000 cubani – su una popolazione all’epoca di 10 milioni di abitanti – di espatriare. Un vero, pubblico disconosci mento del regime: i fuggitivi che scappavano dal socialismo cubano provengono dagli strati più umili e poveri della società, gli stessi che il regime si vanta di difendere.
Estate 1994. Dopo violenti scontri, Castro autorizza 25.000 cubani a lasciare l’isola. Circa 7.000 cubani muoiono in mare, durante la fuga.
Secondo” Il libro nero del comunismo”, dal 1959 ad oggi oltre 1 00.000 cubani hanno sperimentato i campi di lavoro forzato e le prigioni e dalle 15.000 alle 17.000 persone sono state fucilate.
IL TIMONE N. 28 – ANNO V – Novembre/Dicembre 2003 – pag. 18 – 20