C’è una realtà molto nota, non solo per la sue dimensioni quantitative e la sua diffusione geografica, ma anche perché in questi anni è stata raccontata sui mass media: la conversione all’islam di persone provenienti da tradizioni religiose e culturali diverse. Ma c’è un’altra realtà sconosciuta ai più, di cui poco o nulla si parla, e che sta silenziosamente crescendo in Europa e negli stessi Paesi musulmani: la conversione al cristianesimo di persone provenienti dall’islam.
Chi fa il primo percorso spesso diventa leader di associazioni musulmane e protagonista sui giornali e in televisione. Chi opta per il secondo è costretto alla clandestinità.
«Mi sono convertito dall’islam al cristianesimo, ma non oso confessare questa mia conversione nemmeno ai familiari più stretti.
Sogno il giorno in cui potrò proclamare la mia fede in pubblico». «Sono musulmana di nascita, ma poi ho scoperto Cristo e lui mi ha liberata. Quella grande falsità che si chiama libertà religiosa nel mio Paese, mi costringe però ad adorarlo in gran segreto». «Mio fratello giace in prigione con l’accusa di conversione al cristianesimo. Com’è possibile che sia ridotto in schiavitù l’uomo che Dio ha creato libero?». «Ho abbracciato con mia sorella la fede cristiana dopo varie ricerche sulle religioni. Nessuno della famiglia è al corrente perché temiamo conseguenze legali. L’unica via d’uscita per noi è quella di emigrare verso un altro Paese in cui sarà possibile professare la fede senza paura». Queste e molte altre testimonianze – contenute in un forum della Bbc in lingua araba sul tema della libertà di conversione – illustrano in maniera eloquente quanto può costare a un musulmano abbandonare la religione di Maometto.
Molti Stati islamici contemplano, infatti, il “reato di apostasia” nelle Costituzioni o nei codici penali. L’apostasia è punibile con la morte in Arabia Saudita, Iran, Sudan, Mauritania e Yemen. In altri Paesi per l’apostata è previsto il carcere, in altri ancora – come in Malaysia – la reclusione in campi di “riabilitazione islamica”. A questo va aggiunta una serie di implicazioni nell’ambito del diritto di famiglia, del diritto successorio, nell’esercizio dei diritti civili e della funzione pubblica. Un convertito che viene “scoperto” perde automaticamente il lavoro, gli vengono sequestrati i beni, è privato della tutela dei figli.
I casi prima accennati sono relativi alla conversione dall’islam al cristianesimo, ma il marchio infamante dell’apostasia viene anche imposto ai musulmani che esprimono il desiderio di rileggere il Corano alla luce della modernità. Un marchio incancellabile che accompagna “l’apostata” ovunque: anche in terra di emigrazione egli è oggetto di riprovazione, di minacce e di violenze da parte dei suoi concittadini, della comunità di appartenenza o della sua stessa famiglia. In molti casi, sono infatti gli stessi familiari a intervenire al posto dello Stato assumendosi il diritto di lavare direttamente “l’onta”. Per questo molti sono costretti a vivere la loro condizione di convertiti nella riservatezza e spesso nel totale segreto anche in Paesi dove la libertà di coscienza è un principio che, almeno sul piano formale, trova cittadinanza.
Il problema è aggravato dal fatto che l’apostasia sembra configurarsi come un reato nel quadro dell’interpretazione tradizionale dell’islam fondata sul Corano e sulla sunna (la tradizione islamica, ndr). Invece, non ha alcun fondamento “islamicamente” fondato. Su 14 versetti del Corano che sanzionano l’apostasia, 13 prevedono «una punizione molto dolorosa nell’altro mondo» e uno solo (nella sura della Conversione IX,74) parla di «una punizione dolorosa in questo mondo e nell’altro». Tutti i commentatori riconoscono che questo riferimento sia troppo vago per far pensare a una specifica punizione: se si considera che per il furto o per l’adulterio il Corano prevede sanzioni molto precise, ci si stupisce che per condannare un delitto ritenuto così grave con una punizione severa come la condanna a morte sia sufficiente un’allusione così generica: «una punizione dolorosa in questo mondo e nell’altro».
La posta in gioco è molto importante. Dietro l’intera materia si stagliano, infatti, alcune questioni di fondo: la libertà di coscienza, il rapporto tra religione e politica nelle società musulmane e, in ultima analisi, la concezione stessa dell’islam: è possibile pensare un islam “laico”, in cui religione e Stato siano distinti? È doveroso qui riconoscere che, all’interno del vasto e variegato mondo musulmano, è da tempo presente un’istanza tesa ad affermare il primato della persona e della sua dignità rispetto a un’interpretazione meccanicistica della tradizione. Una necessità, questa, che viene avvertita come un passo fondamentale per entrare a pieno titolo nella modernità. Di questa istanza si sono fatte interpreti in tempi recenti alcune autorevoli voci come l’algerino Mohamed Arkoun, i tunisini Mohamed Charfi e Mohamed Talbi, il siriano Bassam Tibi, il sudanese Abdullahi an-Na’im e molti altri.
Pur nella diversità delle situazioni, la conversione di musulmani testimonia che l’incontro con il cristianesimo è una possibilità che interpella la loro libertà. E che qualcuno l’ha fatta sua, scoprendo nel Gesù dei Vangeli la risposta alle sue attese più profonde. Testimonia anche che il fascino dell’incontro con l’esperienza cristiana può risultare più forte dei condizionamenti di natura giuridica, sociale e culturale. Ma proprio la permanenza di questi condizionamenti deve indurre coloro che hanno a cuore la libertà a garantire una piena espressione religiosa anche per i “neocristiani”, troppo spesso costretti alla clandestinità e al silenzio.
La conversione di ogni musulmano è infine una piccola-grande provocazione nei confronti di tanti cattolici, perché si sentano interpellati da questa “primavera della fede” che sta fiorendo attorno a loro. E che forse li può scuotere dal torpore con cui vivono quella rivoluzione antropologica, antica e sempre nuova, che si chiama cristianesimo.
Monica e Agostino sono fuggiti dagli orrori del fondamentalismo islamico che ha terrorizzato l’Algeria. Antuan era un assiduo frequentatore della moschea del suo villaggio in Turchia e ora si prepara a diventare gesuita. Nihad ha combattuto nell’esercito bosniaco, Amina ha “combattuto” in Italia con il padre egiziano che voleva fare di lei una brava musulmana. Sono “I cristiani venuti dall’islam”, protagonisti del libro scritto dai giornalisti Giorgio Paolucci e Camille Eid (Piemme, 216 pagine, Euro 12,90). In Italia sono ormai centinaia e sono solo la punta di un iceberg che si muove nella nostra società. Le loro storie testimoniano che l’islam non è – come a torto si ritiene – un universo del tutto impermeabile. Il libro propone una dettagliata analisi della situazione giuridica e legislativa vigente nei Paesi islamici nei confronti di coloro che abbandonano la religione musulmana.
Una luce su un mondo ignorato dai media: i percorsi di verità umana e di coraggiose rivoluzioni personali.
IL TIMONE – N. 48 – ANNO VII – Dicembre 2005 – pag. 16 – 17