Bisogna che i moralisti (molti dei quali cattolici) ci spieghino. Per decenni, mentre l’economia girava e il reddito cresceva, ci hanno ammoniti severamente, ogni giorno, accusandoci di essere malati di “consumismo”. Ora che l’economia si è fermata e che la frenata dei consumi provoca disoccupazione, miseria, persino una tragica epidemia di suicidi, con lo stesso cipiglio severo ripetono che bisogna intervenire. Ma come? L’unica ricetta da prescrivere sarebbe il ritorno all’esecrato consumismo: se ciò avverrà (e che Dio lo voglia!) i predicatori, religiosi e laici che siano, potranno ricominciare con le loro geremiadi e a invitarci alla frugalità. A che serve un moralista se non ha qualcosa e qualcuno da condannare?
Tra l’altro, quei virtuosi che non avevano parole abbastanza sdegnate contro il detestato “lusso” – vera e propria offesa dei poveri, dicevano – non ammetteranno mai che ora è proprio questo a salvare almeno qualcosa, nel disastro economico generale. Soprattutto in Italia, che può contare sul prestigio non tanto dei suoi gruppi industriali quanto su quello dell’artigianato di qualità e sulla tradizione di buon gusto. Così le nostre auto economiche, le “utilitarie” non si vendono e le grandi imprese che le producono (da noi, solo la Fiat) sono sull’orlo del fallimento. Trionfali, invece, i bilanci della Ferrari che mai come ora ha venduto tanti esemplari delle sue auto che costano sino a un milione di euro. Altrettanto avviene per l’altro marchio di lusso sportivo, la Maserati, tanto che proprio la Fiat (del cui gruppo fanno parte sia questa macchina che la Ferrari) conta di abbandonare le auto di minor prezzo e di concentrarsi su quelle acquistabili soltanto da una clientela benestante. Sta di fatto che, già da ora, il posto di lavoro di migliaia di operai, tecnici, fornitori è solidamente assicurato dai demonizzati “ricchi”. Allo stesso modo, i magazzini dell’abbigliamento a buon prezzo denunciano un crollo delle vendite, ma non così le boutiques dell’alta moda che ha in Italia una delle sue capitali e uno dei perni economici che reggono bene. Allo stesso modo le scarpe economiche restano invendute, ma non così quella di gran marca. E così via, per ogni settore di prodotto: sino ai cantieri per la costruzione di yacht che lavorano ancora a pieno ritmo, mentre restano invenduti barchette e gommoni. Sono diminuite persino le vendite di prodotti alimentari da supermercato, ma sono in aumento quelle di gastronomia raffinata e di vini di pregio.
Mi fermo a questi esempi che ci ricordano come le cose siano sempre più complicate di quanto non voglia lo schematismo di certi predicatori: in questo caso, il guadagno di tante persone modeste è assicurato, malgrado la crisi, da chi ha maggiori disponibilità. E questo non avviene soltanto nell’Europa in difficoltà, ma si allarga a quello che, per pigrizia, chiamiamo ancora “terzo mondo”, come ai tempi della guerra fredda. Quante volte abbiamo sentito tuonare contro il nostro benessere, mentre tanta parte del pianeta soffre la fame? Ma non è forse quel benessere che costituiva la maggior fonte di entrate per quelle popolazioni? Una volta li chiamavano “prodotti coloniali” perché il clima europeo non permette di disporne: caffè, tè, cacao, banane, noci di cocco, pompelmi, pepe, noce moscata, spezie varie, arachidi, zucchero di canna, risi di alta qualità, tabacchi pregiati, essenze vegetali per profumi e così via. Nessuno di questi prodotti è, di per sé, necessario alla vita di noi occidentali, sono cose che solo un buon reddito economico può indurre a consumare. Cose, comunque, che non rientrano nello stile sobrio se non spartano di vita che i moralisti proponevano come meta per tutti.
Si può benissimo rinunciare ai “coloniali” (magari, in certi casi, anche con un vantaggio per la salute) e in effetti, ora, molti sono costretti a farlo. Il risultato? L’abbassamento della domanda europea determina l’abbassamento drastico dei prezzi e questo si ripercuote, ovviamente, su economie già mal ridotte come quelle di Africa, Asia, Sudamerica. La diminuzione di “benestanti” da noi sta provocando un impoverimento dei già poveri: questi vivevano dei nostri “consumi voluttuari”, sui quali piovevano i fulmini delle “anime belle” che dicevamo. Quaresimalisti (anche se spesso di stretta osservanza laica) che, come troppo spesso è avvenuto e avviene, con le loro utopie di una umanità “virtuosa”, di popoli frugali come monaci, in realtà finiscono per danneggiare coloro che vorrebbero aiutare.
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Ma, di fronte a questa crisi economica (drammatica, perché non è congiunturale bensì strutturale, dunque non c’è da sperare che sia passeggera), occorre che anche altri ci diano spiegazioni. A cominciare dai propagandisti del capitalismo e delle privatizzazioni di tutto, comunque. Da sempre – e, in questo, giustamente – i liberisti denunciavano l’inefficacia e i costi altissimi dello statalismo, dell’economia pianificata di sovietica memoria. Ma hanno sbagliato, come stiamo vedendo, cantando lodi incondizionate, acritiche alla libera economia di mercato. Il mercato, cioè, presentato come il demiurgo onnipotente, di cui ci parlavano con una sorta di venerazione del tipo di quella riservata dai comunisti al mitico proletariato. Ma, qui pure, la realtà non ha corrisposto alle teorie. È in effetti la realtà che ci mostra come la concorrenza che dovrebbe essere l’anima del mercato, con gran vantaggio dei consumatori, molto spesso (anzi, quasi sempre) non esiste. Esiste, invece, quello che gli economisti chiamano “cartello”: l’accordo tra aziende, cioè, per fissare un livello di prezzi sotto il quale non si deve scendere e l’eliminazione programmata della concorrenza. Giungendo addirittura a prefissare le quote di mercato, Paese per Paese e prodotto per prodotto, per evitare una guerra tra imprese che aumenterebbe i costi, diminuirebbe i guadagni e favorirebbe solo i clienti, visti solo come allocchi da spennare il più possibile. Per stare a un genere che prima o poi è per tutti, purtroppo, di prima necessità: qualcuno crede forse che i prezzi altissimi dei medicinali (che provocano tra l’altro lo sconquasso dei sistemi sociali dell’Occidente, costretti al rimborso dalle loro politiche di medicina gratuita o quasi) qualcuno crede che quei prezzi siano determinati dal mercato e che quelle scatolette e bottigliette più care dell’oro siano soggette a concorrenza, in un ideale “economia di mercato”? O, per stare a quegli alimenti, i cereali, su cui si basa la dieta della maggioranza dell’umanità: il prezzo, per il mondo intero, è fissato giorno per giorno alla grande borsa specializzata di Chicago. E qui pure, in una delle scintillanti capitali della presunta “libertà economica”, i trust fissano il prezzo di vendita non in base alla quantità e alla qualità della produzione, bensì rispettando con scrupolo gli accordi con i grandi produttori agricoli.
Ogni ideologia – la storia lo dimostra – prima o poi si rivela disastrosa: lo era il marxismo, come abbiamo ben visto; ma lo è altrettanto – lo stiamo vedendo ora – anche il liberismo, inteso come abbandono dell’economia a un mercato che in realtà è quasi sempre truccato, con mezzi leciti o illeciti, alla luce del sole o sottobanco. Il cristiano, crediamo, è chiamato pure qui ad esercitare la grande virtù evangelica del realismo, del confronto con un mondo dove il suo impegno anche sociale ed economico è necessario. Sempre nella consapevolezza, però, che ogni progetto dell’uomo sempre si scontrerà con il peccato che si cela in ciascuno e che sempre rischierà di rovesciare le migliori intenzioni nel loro contrario. Il sogno comunista dell’eguaglianza ha portato ai regimi più ineguali della storia. Il sogno liberista del benessere per tutti ci sta portando all’impoverimento. Non dimentichiamo, ascoltando tanti discorsi di decisive “riforme”: ci è stato promesso sì un “mondo nuovo”, ma siano stati avvertiti che il suo avvento non è per questa vita.
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Non parlerò, qui, della rinuncia al papato di Benedetto XVI e dell’elezione di Francesco. Me ne sono occupato per il Corriere della Sera, a tal punto che – su pressante indicazione della direzione di quel giornale – ho dovuto addirittura scrivere in pochi giorni un libricino. Un instant book, un libro immediato, da poco più che 100 pagine. Chi fosse interessato potrà procurarselo non in libreria ma in edicola. Ho rischiato, a partire dall’11 febbraio scorso, una sorta di overdose “pontificia” e, dunque, non tornerò a disquisire su quel tema.
Solo per contribuire alla riflessione – ribadendo ovviamente non solo obbedienza ma affetto e stima al nuovo pontefice – vorrei riprodurre qui alcune righe di Franco Cardini, lo storico cattolico che ben conosce la vicenda bimillenaria della Chiesa e al contempo lo spirito del nostro tempo. Sono parole, queste di Cardini, che per qualche aspetto possono apparire severe, ma possono anche aiutarci e capire certi primi gesti di Francesco che esigono forse una spiegazione. Scrive, dunque, lo storico, dopo un giusto e grande elogio del già arcivescovo di Buenos Aires: «Lo dichiaro controvoglia. Ma scelte come la rinuncia all’oro nella croce e nell’anello da parte del pontefice appena eletto mi sono dispiaciute. Non tanto perché le abbia trovate demagogiche (sono convinto dell’assoluta buona fede del Santo Padre nel compierle), quanto perché mi sembrano il sintomo di un contagio moderno che ci ha raggiunto tutti. Per noi, l’oro simboleggia innanzitutto la ricchezza e il potere: questo è il risultato di quel primato dell’economia che è tra i connotati più allarmanti della modernità. Ma l’oro dei sacri arredi e dei simboli sacri non è questo: esso è il riflesso della luce solare, dello splendore del Cristo, Sol Iustitiae. È per Lui, in Suo onore, nel Suo nome che i papi se ne adornano. Spogliarsene è un atto moralmente commendevole, sul piano delle intenzioni; ma teologicamente è senza senso e sembra indicare fino a che punto sia giunta, oggi, anche al vertice del clero, l’incomprensione degli antichi ma sempre preziosi simboli del Sacro».
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Troppo si è parlato e si parla dello stallo politico italiano. È comprensibile, visto che, come sul piano economico, anche su quello istituzionale i nodi dei molti decenni che abbiamo alle spalle sembrano venuti tutti al pettine. Ma, dato il profluvio di parole scritte e parlate non voglio aggiungere altri commenti o i soliti, edificanti ma inutilissimi, auspici.
Soltanto, per quel che valgono, poche semplici annotazioni. La prima: la polemica contro i partiti sembra accomunare tutti gli elettori, mentre dovrebbe essere propria soltanto di coloro che rifiutano la democrazia parlamentare. La quale, per definizione, non può funzionare e neppure esistere senza partiti politici. Anche la degenerazione cui vanno incontro queste fazioni è cosa fisiologica, inevitabile. Sempre e dovunque succede così, questa è la deriva costante. Il “partito dei tutti puri, onesti, disinteressati” non può esistere, se non nelle utopie degli ingenui o nei deliri di gnostici e catari. Poiché (anche secondo il costante insegnamento cattolico) la società umana può organizzarsi legittimamente in molte forme, diverse dalla democrazia parlamentare, si tratta di scegliere. Che ciascuno valuti, dunque, se il peso dei partiti – tutti insieme – è accettabile rispetto ai vantaggi veri o presunti che possono dare. E si comporti di conseguenza.
Non cada però nel solito equivoco di dar fiducia ai demagoghi che, per evitare la parola “partito” tanto screditata, offrono la loro mercanzia dandole il nome di “movimento”. Sia nella politica che in altri ambiti – a cominciare da quello religioso – non è mai esistito né mai esisterà alcun “movimento” che non si faccia, molto presto, istituzione organizzata e gerarchica. Se, dunque, il movimento non si trasforma esso stesso in partito (o in chiesa) è destinato presto a sparire. Il periodo “movimentista” è quello nascente, al massimo quello adolescenziale, ma se una prospettiva politica – o religiosa – vuol raggiungere la maturità deve darsi proprio quelle strutture stabili e rigide per combattere le quali è nato. Tutte le ideologie della modernità – giacobinismo, comunismo, fascismo, nazionalsocialismo, radicalismo – sono nate con bellicose intenzioni antipartitiche, con dichiarazioni “movimentistiche” e sono diventate quelle organizzazioni totalitarie che sappiamo. Se non lo avessero fatto, si sarebbero presto disciolte. È ciò che avverrà inevitabilmente, tanto per fare un esempio di questi giorni, per il “Movimento” chiamato “Cinque Stelle” e di cui il grottesco leader è Beppe Grillo. È nato per disfarsi dei partiti ma, se avrà un futuro, sarà solo divenendo partito esso stesso e tra quelli dove sarà richiesta più stretta osservanza alla volontà dei Capi.
Il cristianesimo stesso ha percorso con rapidità il percorso inevitabile: dal “movimento di Gesù” alla Chiesa cristiana e poi cattolica, organizzata e gerarchica. Non vi è nulla di sorprendente né, tanto meno, di scandaloso in questo percorso: sono le leggi alle quali, lo vogliamo o no, tutte le istituzioni umane soggiacciono. E la Chiesa, cattolica in particolare, è anche una istituzione che il Cristo ha affidato agli uomini lasciando che fosse sottoposta alle regole della storia. Regole che hanno agito senza scampo anche ogni volta che qualche credente si è allontanato polemicamente dalla Chiesa romana, considerata soltanto un centro di potere, dominato da una mentalità dogmatica. Non è forse al grido per la “libertà cristiana” che i Riformatori del XVI secolo se ne sono andati da Roma, fondando ciascuno il suo “movimento” di “liberi ed eguali”? È successo quel che doveva succedere: attorno ai leader carismatici, attorno a Lutero, a Calvino, a Zwingli e poi via via a tutti gli altri, sono nate nuove “chiese” munite di gerarchia, di dogmi, di inquisizioni. Volete forse che, di fronte a questi grandi esempi, sorte diversa sia riservata a un ex-comico fattosi pseudoprofeta, scarmigliato e urlante?
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Ho sempre avuto insieme terrore e orrore per i “giustizieri”, per i “puri e duri” sempre alla ricerca di colpe degli altri da punire, per quelli che annunciano la “tolleranza zero”. La Rivoluzione Francese è piena di personaggi orribili, spesso abietti se non psicopatici ma, tra loro, il più ignobile mi è sempre sembrato Fouquier Tainville, “l’accusatore del popolo” al Tribunale rivoluzionario durante il Terrore, tribunale che conosceva una sola pena: quella di morte. E ne usò ed abusò con la larghezza spaventosa che sappiamo. Fino a quando, però, il sistema non giunse alle sue logiche conseguenze e toccò a Fouquier Tainville salire i cinque gradini che portavano alla ghigliottina ed essere affidato alle premure di monsieur Sanson, il boia cui aveva dato a lungo un superlavoro. Non ho mai desiderato fare il magistrato, avrei avuto paura nell’esercitare quella giustizia umana che pure è necessaria ma che, personalmente, preferisco lasciare a Dio solo. In ogni caso se, per assurdo, mi fossi trovato a fare il giudice mai e poi mai avrei accettato il ruolo di pubblico ministero. Credo che in questa allergia istintiva non sia estraneo il ricordo del più ingiusto dei processi, quello di un tal Gesù, a Gerusalemme.
Non vado dunque alla ricerca delle colpe di alcuno (quelle personali s’intende, le idee sono altra cosa e sono aperte al libero giudizio, anche rude), mi basta considerare, magari con doverosa compunzione, le mie, di colpe, quando pratico “l’esame di coscienza” prima della confessione. Né mi rallegro delle condanne di altri, mettendo sempre in conto il possibile errore dei giudici.
So che qualcuno non sarà d’accordo ma ho sempre pensato che, dovendo scegliere tra due mali, sia molto meglio un colpevole impunito che un innocente condannato.
Eppure: l’ammetto, sono tentato di fare qualche eccezione per una categoria particolare, quella degli ipocriti. In effetti, non mi dispiace – se è necessario, Dio mi perdoni – quando la punizione (almeno politica) colpisce personaggi come Jérome Cahuzac, ministro del bilancio di François Hollande, presidente francese, socialista dal laicismo ottocentesco, una sorta di copia gallica dell’iberico Zapatero di infausta memoria. Il Cahuzac non faceva solo il ministro ma il pedagogo, predicava instancabile la necessità di praticare la “morale repubblicana”, il cui primo dovere sarebbe quello di pagare sino all’ultimo le tasse. Aveva addirittura programmato, a spese dello Stato, una campagna pubblicitaria – sui giornali, su internet, sulla tv – dove l’evasore fiscale era presentato come un brigante, un rapinatore dei bravi cittadini, un asociale.
Quando l’inchiesta di un sito web ha cominciato ad avanzare alcuni sospetti, questo socialista, questo missionario laicissimo dell’onestà civica ha replicato sdegnato, è apparso in tv per confermare la sua immacolatezza, ha addirittura giurato al presidente Hollande di essere il più rigoroso dei contribuenti. Ma l’inchiesta giornalistica non si è fermata e, alla fine, il ministro del bilancio ha dovuto confessare, per evitare guai peggiori: da molti anni, aveva conti segreti tra Svizzera e Singapore, era anche lui tra gli evasori fiscali (per giunta non casuali, ma cronici) bersagli del suo sdegno edificante.
Oddio, non è cosa inconsueta, càpita quasi sempre di constatare la verità del vecchio detto: il puro trova prima o poi un altro più puro che lo epura. D’accordo, non sarà né la prima o l’ultima volta. Ma quando succede, dà qualche soddisfazione.
IL TIMONE N. 123 – ANNO XV – Maggio 2013 – pag. 64 – 66
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