Né comunista né fascista. Durante gli orrori della guerra civile, il grosso degl’italiani ha impedito che nel dopoguerra i mali delle ideologie facessero più danni di quanti ne siano comunque stati fatti. Il nostro è un Paese normale, che può rinascere
Tutti comunisti?
Ebbene, quanto al primo falso mito, è vero invece che, accanto a squadre partigiane indiscutibilmente comuniste – in combutta quando non al soldo delle forze comuniste jugoslave e sovietiche – agirono anche formazioni combattenti rispondenti ad altri credo, ad altri ideali, anche ad altre ideologie. Vi furono cioè numerosi antifascisti liberali, monarchici, azionisti e persino distintamente cattolici; valga per tutti la testimonianza lasciata da uno degli ultimi sopravvissuti di quell’epopea, Aldo Ferrero, 98enne, difficilmente peraltro ascrivibile a questa o a quella ideologia, ma certamente non comunista, anzi tanto anticomunista quanto antifascista, che ho intervistato su Libero quotidiano il 25 aprile scorso. Il corollario decisivo di questo primo falso mito resistenzialista porta del resto a dire che l’azione bellica di contrasto a quel che restava del disciolto regime fascista, riorganizzatosi nelle divisioni militari della Repubblica Sociale Italiana, e quindi l’intera liberazione del Paese dall’occupante nazionalsocialista, fu opera esclusiva degli antagonisti comunisti. Ma è vero il contrario. La lotta partigiana è semmai stata lo sforzo corale di forze politico-culturali diverse, e però l’apporto fondamentale alla guerra di liberazione italiana è stato dato dalle forze armate dei Paesi Alleati, segnatamente degli Stati Uniti d’America, così che il ruolo svolto dai partigiani, non esclusivamente comunisti, in quel contesto è stato solo secondario, al massimo di supporto, logistico.
La sanior, e maior, pars
Quanto invece al secondo falso mito, la sollevazione in massa degl’italiani contro ciò che restava del fascismo, non avvenne affatto. Nonostante la scienza storica lo abbia acclarato da tempo, questa bugia sopravvive a se stessa alimentata da interessi ideologici di parte e pretende di affermare che, se la Resistenza e la liberazione dal cosiddetto “nazifascismo” è stata opera esclusiva dei socialcomunisti, allora l’Italia repubblicana e democratica affonda le proprie radici solo ed esclusivamente in quello “sforzo popolare patriottico”, dunque nell’ideologia comunista in cui si riconoscerebbe la stragrande maggioranza degl’italiani. Ma non è vero. Renzo De Felice (1929-1996), storico eminente
del fascismo, peraltro di estrazione grosso modo liberale, e autorevole biografo di Benito Mussolini (1883-1945), ha, fra i molti, anche il merito di avere sollevato un primo lembo della coperta stesa dall’ideologia comunista italiana su quei frangenti decisivi della storia nazionale, affrontando l’ovviamente spinosa questione nel libro Rosso e Nero e in generale nell’ultimo volume della sua monumentale biografia di Mussolini.
La maggioranza degl’italiani, cioè, appura De Felice, non prese affatto parte alla guerra civile (1943-1945) succeduta all’8 settembre. La maggioranza degl’italiani non lo fece giacché non si riconosceva minimamente nelle ideologie che allora si combattevano: non soltanto nella dicotomia tra comunismo e fascismo, come vorrebbe il primo falso mito secondo cui i nemici dei neri erano solo i rossi, ma pure nel più ampio ventaglio d’ideologie che sul serio si opposero a fascisti e tedeschi. La maggioranza degl’italiani, afferma cioè De Felice, occupò invece una vasta «zona grigia» intermedia, che non scelse né l’una né l’altra parte, che certamente non era fascista così come altrettanto certamente non era comunista, che comunque non era neppure liberale in senso stretto, che con la monarchia sabauda, tra “amore e odio”, non aveva ancora risolto tutti i conti, che di fatto era in gran parte di estrazione cattolica e persino cattolico-conservatrice, popolare e aristocratica assieme, che non rimpiangeva il regime passato ma che sicuramente diffidava del nuovo ignoto, e che forse nutriva pure qualche dubbio persino sulla forma istituzionale repubblicana.
«Il movimento partigiano – scrive infatti lo studioso – si fece moltitudine pochi giorni prima della capitolazione tedesca, quando bastava un fazzoletto rosso al collo per sentirsi combattente e sfilare con i vincitori». In realtà, infatti, la popolazione pensava ad altro che non allo scontro ideologico. Pensava a sopravvivere, cercando di non cadere dalla padella alla brace, cioè di passare dal dominio dispotico di un regime liberticida, il fascismo, a un altro, il comunismo, magari persino peggiore, visti i precedenti, ben noti, segnati dall’Unione Sovietica verso dissidenti, non comunisti e persino comunisti “disobbedienti”, addirittura italiani, internati nel GULag e da lì usciti solo cadaveri. Così, «ci fu, tra la maggioranza degli italiani, un atteggiamento di sostanziale estraneità, se non di rifiuto, sia nei confronti della Rsi che della Resistenza», una “terra di nessuno” «impossibile da classificare socialmente, espressa trasversalmente da tutti i ceti, dalla borghesia alla classe operaia». Non per opportunismo, osserva acutamente lo specialista, ma per opportunità. Insomma, una sorta di Paese normale, o quantomeno un po’ più normale di quello proposto e imposto dalle contrapposte visioni ideologiche del mondo, che scelse, esso sì, di resistere, finalmente, ai molti mali dell’ora presente.
Del resto, documenti raccolti dai servizi segreti della RSI evidenziarono subito «un diffuso sentimento di genuina avversione per i fascisti e i tedeschi, ma anche di sincera paura per lo sviluppo sanguinoso della lotta armata e per l’incrudelirsi della guerra civile»: una sconfitta cocente, insomma, sia per i fascisti sia per i comunisti che così non riuscirono mai a spartirsi allora le spoglie del Paese e, dopo, per quel che riguarda i vincitori di quello scontro, i comunisti, a conquistarlo per intero.
La resistenza vera
Ora, questa «zona grigia», renitente solo all’ideologia e non al buon senso, ha attraversato nascostamente e patito gli orrori della guerra civile, ha subito con una certa difficoltà il passaggio istituzionale dalla monarchia alla repubblica nel 1946, e però è prontamente tornata a pretendere il conto di una storia straziata il 18 aprile 1948, allorché la sua lotta autenticamente di popolo sconfisse il grande tentativo del comunismo italiano agli ordini di Mosca d’impadronirsi una volta per tutte del Belpaese, sbugiardando definitivamente i falsi miti resistenzialisti e sancendo definitivamente la scelta occidentale dell’Italia.
È questa «zona grigia», insomma, la senior ma pure la maior pars non ideologizzata degl’italiani, che ha sempre costituto l’anima vera e il tono di questo Paese altrimenti incomprensibile. Se nel dopoguerra, con alterne fortune, la Democrazia Cristiana ha cercato più volte di approfittarsi di questo “limbo”, non difficile è intravedere il collegamento esistente fra quegl’italiani che nella guerra civile non scelsero né il fascismo né il comunismo e quella “maggioranza silenziosa”, popolare, borghese e aristocratica, che ha costituito sempre il blocco sociale trasversale e la massa critica capace in Italia di contrastare, e talora persino di bloccare, i tentativi profusi dall’ideologia socialcomunista e dai suoi derivati “debolistici” per negare al Paese un futuro consono alle sue radici cristiane e di buon senso, alias senso comune.
Che l’ideologia non paghi, insomma, lo aveva capito se non altro istintivamente la maggioranza degl’italiani sin dall’inizio, e la buona notizia è che i figli di quei padri, per quanto proverbialmente nascosti come sempre, sono ancora tra noi.
Dossier: Resistenza: la guerra civile
IL TIMONE N. 95 – ANNO X II – Luglio/Agosto 2010 – pag. 44 – 45
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