C’è una contesa nella comunità medico-scientifica riguardo le cure da prestare ai neonati prematuri. Purtroppo non sempre la vita viene rispettata. Ecco alcuni casi.
Il dibattito intorno alle questioni relative ai grandi prematuri, i bambini nati con forte anticipo rispetto al normale termine della gravidanza, si è animato negli ultimi anni in maniera proporzionale ai progressi della scienza ed al conseguente aumento delle loro possibilità di sopravvivenza.
A ben vedere, si può parlare di un grande equivoco morale: non è infatti ammissibile, come invece accade in questo caso specifico, subordinare il diritto alla vita e la dignità di una persona al suo grado di sviluppo psicofisico, alle sue probabilità di sopravvivere o addirittura alla volontà altrui (dei genitori, dei medici). Se aggiungiamo che non manca neppure chi, anche di fronte alla certezza della permanenza in vita del bambino prematuro, ipotizza l'inopportunità della rianimazione o addirittura la sua soppressione deliberata – nei casi in cui si stabilisca che la qualità della vita non raggiungerà standard accettabili a causa dei problemi dovuti alla nascita precoce -, ci si accorge che siamo di fronte ad una deriva antiumana pienamente in atto.
In questa sede non saranno prese in considerazione le posizioni etiche e filosofiche che giustificano o condannano l'opportunità di curare i prematuri e neppure gli aspetti prettamente medici della questione. Piuttosto, per comprendere quali sono le teorie e le prassi mediche che, purtroppo, si fronteggiano al riguardo, può risultare utile condurre una ricognizione dei principali accadimenti che recentemente hanno segnato le tappe della contesa all'interno della comunità medico-scientifica.
Neonati ed eutanasia
Il punto di partenza per la nostra necessariamente breve disamina può essere posto nel 2005, quando il New England Journal of Medicine pubblica il lavoro del dottor Eduard Verhagen, medico olandese, dal titolo L'eutanasia nei neonati gravemente malati, noto alle cronache come il Protocollo di Groningen. Con esso, Verhagen si propone di sistematizzare la pratica eutanasica sui bambini. Essi vengono catalogati con freddezza in tre gruppi: i neonati incurabili destinati a morte certa, quelli la cui sopravvivenza è legata a terapie intensive e per i quali si prospetta una scadente qualità della vita e infine quelli estremamente sofferenti, ma la cui permanenza in vita non è vincolata necessariamente ad interventi medici. Per il primo gruppo, dice Verhagen, è buona pratica lasciare che la natura faccia il suo corso. Per gli altri due gruppi si rende necessario un confronto tra medico e genitori che può portare a stabilire che la morte «sia oiù umana della continuazione della vita», aprendo di fatto le porte all'eutanasia. Se è vero che nelle intenzioni del medico olandese non sono solo i prematuri ad essere oggetto del suo protocollo, è altrettanto indubbio che i nati prima del termine sono ovviamente tra i primi soggetti a rischio secondo i criteri di Verhagen. Non a caso, nell'ottobre 2008, proprio il medico di Groningen è stato l'ospite d'onore di un convegno dal titolo Le sfide della neonatologia alla bioetica e alla società: le buone ragioni della Carta di Firenze, tenutosi nel capoluogo toscano. Nel 2006, la Carta di Firenze, affrontando le tematiche relative alla rianimazione dei prematuri, aveva delineato una cosiddetta «zona grigia» tra le 23 e le 24 settimane di gestazione, in cui la scelta circa gli interventi per garantire la sopravvivenza del bambino nato sono da concordare tra genitori e medici, nonostante i progressi scientifici in materia attestino intorno all'8% le possibilità di vita di un nato alla ventiduesima settimana. Ancora in Toscana, questa volta a Siena, nello stesso anno viene redatta la Carta dei diritti del neonato, in cui si afferma il diritto «a non vedersi sospendere le cure, ma a ricevere tutta l'assistenza adeguata al caso» anche per i bimbi con prognosi gravemente negativa.
Il dubbio
Impossibile, qui, non ricordare Tommaso, bimbo venuto alla luce nel 2007 alla ventitreesima settimana con un aborto non riuscito, effettuato perché dagli esami risultò che soffriva di atresia dell'esofago, e sopravvissuto per sei giorni. Tommaso nacque perfettamente sano e vitale, ma per venti minuti fu lasciato senza assistenza. Cominciò così a farsi strada il dubbio che spesso per i bimbi prematuri nati da aborti falliti non si facesse tutto ciò che era possibile per la loro sopravvivenza.
Nel 2008 il dibattito si fa aspro, a partire da febbraio. Il frutto di un convegno, che vede impegnate le cliniche universitarie di ostetricia e ginecologia di Roma, è un documento in cui si stabilisce che «un neonato vitale, in estrema prematurità, va trattato come qualsiasi persona in condizioni di rischio e assistito adeguatamente». Successivamente, l'allora Ministro della Salute Livia Turco, in una intervista al quotidiano la Repubblica a proposito della legge 194, non esita a definire «crudeltà insensata» la rianimazione senza il permesso della madre, eseguendo una vera e propria acrobazia verbale che confonde la pietà con la brutalità (e viceversa). A smentire la Turco, che dovrà ricredersi pubblicamente, ci pensa il Consiglio Superiore della Sanità con un pronunciamento, che assumerà valore operativo, in cui si precisa che «in caso di conflitto tra le richieste dei genitori e la scienza e coscienza dell'ostetriconeonatologo, la ricerca di una soluzione condivisa andrà perseguita nel confronto esplicito ed onesto delle ragioni esibite dalle parti, tenendo in fondamentale considerazione la tutela della vita e della salute del feto e del neonato». Dunque la normalità viene ripristinata e, da un punto di vista della pratica medica, il prendersi cura di un essere umano fragile e indifeso torna ad essere una priorità. Sempre al febbraio 2008 risale un parere del Comitato Nazionale di Bioetica intitolato I grandi prematuri. Nel parere veniva definito «eticamente inaccettabile, oltre che scientificamente opinabile, la pretesa di individuare una soglia temporale a partire dalla quale rifiutare, a priori, ogni tentativo di rianimazione». Ad ottobre si svolge il già citato convegno fiorentino.
AI trattamento da riservare ai nati prematuri si intreccia inevitabilmente il dibattito sui limiti di applicazione della legge 194 sull'aborto. Anche in questo caso la discussione appare viziata da una valutazione erronea di fondo: l'aborto volontario non è mai buono, indipendentemente dal momento in cui viene effettuato, e si deve fare attenzione a non cadere nel tranello di chi legittima tale scelta nel caso in cui il bambino nel grembo materno non abbia alcuna possibilità di sopravvivere una volta venuto alla luce (ad esempio alla quindicesima settimana di gestazione). Detto questo, giova ricordare la vicenda delle linee guida della legge 194 varate dalla regione Lombardia, bocciate dal Tar, che prevedevano il divieto di aborto oltre le 22 settimane e 3 giorni di gravidanza, proprio in virtù dell'elevata possibilità di sopravvivenza del bambino ad un parto anticipato. Un ultimo breve accenno lo merita un caso che può essere ritenuto paradigmatico, quello del voto del parlamento inglese ancora in merito alla modifica dei limiti oltre i quali porre un divieto di praticare aborti, fissato a 24 settimane nel 1990 e confermato nel maggio 2008. La bocciatura per l'abbassamento a 12 settimane è stata sonora, mentre solo per pochi voti non si è approvato l'abbassamento a 22 settimane. La logica che presiede all'esito di quelle votazioni è proprio quella che anima il dibattito sui prematuri ed è facilmente spiegabile: più sono scarse le possibilità del bimbo di sopravvivere, più si è legittimati a decidere della sua vita senza considerarne la sacralità e il tesoro che essa rappresenta. È questo l'assurdo che calpesta la vita umana in una delle sue forme più fragili, per la quale sarebbe necessaria una dose immensa ed urgente di pietà e non solo una glaciale valutazione statistica e scientifica.
IL TIMONE N. 82 – ANNO XI – Aprile 2009 – pag. 52 – 53
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