In alternativa, c’è il criterio che attinge al Magistero della Chiesa. Il Santo Padre Benedetto XVI è tornato sull’argomento qualche settimana fa, rivolgendosi ai vescovi brasiliani in visita ad limina a Castel Gandolfo. Un discorso da manuale, nel quale sono riassunti i “fondamentali” della dottrina cattolica sul matrimonio e sulla famiglia. Un discorso che ha fatto scalpore sui mass media, perché il Papa ha usato parole molto forti e – secondo suo costume – non si è rifugiato in espressioni ambigue e fumose. Benedetto XVI ci indica una strada che tiene insieme realismo e fedeltà alla dottrina, conoscenza di come stanno le cose e giudizio di verità su ciò che è bene e ciò che è male. Le parole del Papa incidono con chirurgica precisione il corpo malato della società in cui viviamo. Ed è impressionante constatare il baratro che separa la visione della modernità secolarizzata e lo sguardo della retta dottrina cattolica su matrimonio e famiglia.
Ecco una sintesi di questo tremendo duello.
Secondo il mondo, la famiglia è un’invenzione della cultura. La famiglia è qualunque cosa. Il Papa dice: la famiglia è una «istituzione naturale confermata dalla legge divina, ordinata al bene dei coniugi e alla procreazione ed educazione della prole». La famiglia non è un’invenzione dello Stato e nemmeno della Chiesa, ma è inscritta nella natura dell’uomo. Non c’è famiglia senza coniugi (da cum iugum: marito e moglie portano il giogo insieme) e senza apertura alla procreazione e ai conseguenti obblighi educativi. «La famiglia – aggiunge il Papa – ha il proprio fondamento nel matrimonio e nel piano di Dio».
Secondo il mondo, lo Stato laico è neutrale, e non può imporre il matrimonio indissolubile a tutti. Il Papa dice: la famiglia è oggi «sotto assedio, con la vita che esce sconfitta da numerose battaglie». La crisi del matrimonio non è solo il prodotto della fragilità degli uomini e delle donne – in fondo, questa è una costante di ogni epoca – ma è la conseguenza di un’azione sistematica su scala mondiale, fatta di leggi ingiuste e cultura di morte. Il Papa parla di famiglie «illuse e sedotte da certi stili di vita relativistici, che le produzioni cinematografiche e televisive e altri mezzi di informazione promuovono».
Secondo il mondo, i “cambiamenti” in atto nella famiglia devono essere digeriti senza fare resistenza. Questo ci permetterà di metabolizzare stili di vita che non di rado si sono insinuati dentro la nostra stessa famiglia: un figlio che convive, una figlia che “si rifà un’altra vita risposandosi dopo un divorzio”, un nipotino che in settimana sta con la mamma e poi passa il week-end con il papà e la sua nuova compagna. Situazioni dolorose, ma che il conformismo mondano propone di risolvere come “normali”. “Oggi ormai si usa così” – dice sempre più spesso l’attempata coppia di anziani “genitori cattolici”.
Il Papa dice: «La coscienza diffusa nel mondo secolarizzato vive nell’incertezza più profonda a tale riguardo, soprattutto da quando le società occidentali hanno legalizzato il divorzio». Il Papa mette il dito nella piaga: la mentalità comune ha perso di vista l’orizzonte autentico del matrimonio, e la causa principale di questo smarrimento è la legalizzazione del matrimonio “divorziabile”, che annulla il valore reale della promessa resa dagli sposi al momento del consenso.
Secondo il mondo, uomo e donna devono stare insieme “finché se ne ha voglia”: premessa che rende fisiologico il divorzio e patologico il matrimonio indissolubile.
Il Papa dice: «L’unico fondamento riconosciuto sembra essere il sentimento, o la soggettività individuale, che si esprime nella volontà di convivere. Il numero dei matrimoni diminuisce poiché nessuno impegna la propria vita con una premessa tanto fragile e incostante, crescono le unioni di fatto e aumentano i divorzi». Il Papa non sembra credere molto alle tesi sociologiche che spiegano il dilagare delle convivenze con la scarsità degli alloggi o con il lavoro precario. E fa bene.
Secondo il mondo, divorziare non è un problema: l’importante è farlo in modo civile, restando buoni amici, magari costruendo una famiglia “allargata” dove mogli nuove ed ex mogli vanno in gita con figli vecchi e nuovi, ex mariti e giovani compagni.
Il Papa dice: «La cosiddetta famiglia allargata e mutevole, che moltiplica i “padri” e le “madri”, fa sì che oggi la maggior parte di coloro che si sentono “orfani” non siano figli senza genitori, ma figli che ne hanno troppi». Insomma: non esiste un “modo buono” di divorziare.
Secondo il mondo, il gran numero di separazioni e divorzi è il segno che i tempi sono cambiati, e che anche la Chiesa deve rivedere le sue regole vecchie e superate.
Capita di sentire, anche in ambienti cattolici: “ma chi l’ha detto che il matrimonio è sempre indissolubile?”. Non mancano convegni, piani pastorali, commissioni diocesane che “si interrogano” e che cercano “nuove soluzioni per i divorziati risposati che non si possono comunicare”. Parole vuote, che producono solo confusione nella testa dei fedeli. C’è sempre dietro l’angolo la tentazione di assecondare la mentalità del mondo, di considerare ineluttabile il rifiuto del matrimonio indissolubile, e quindi di ritenere ormai improponibile la dottrina cattolica all’uomo di oggi. Il Papa dice: «L’amore degli sposi esige, per sua stessa natura, l’unità e l’indissolubilità della loro comunità di persone che ingloba tutta la loro vita» (Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 1644). Gesù ha detto chiaramente: «l’uomo non divida quello che Dio ha congiunto» (Mc 10,9), e ha aggiunto: «Chi ripudia la propria moglie e ne sposa un’altra commette adulterio verso di lei; e se lei, ripudiato il marito, ne sposa un altro, commette adulterio» (Mc 10,11-12).
Secondo il mondo, la condizione del divorziato risposato è normalissima e genera un nuovo matrimonio, magari anche migliore del primo. Il Papa dice: «Con tutta la comprensione che la Chiesa può provare dinanzi a simili situazioni, non esistono coniugi di seconda unione, ma solo di prima unione; l’altra è una situazione irregolare e pericolosa, che è necessario risolvere, nella fedeltà a Cristo, trovando con l’aiuto di un sacerdote un cammino possibile per salvare quanti in essa sono implicati». Questo è il passaggio più importante e insieme il più aspro dell’intero discorso. Quando – sopraffatti dagli usi del tempo presente – chiamiamo “moglie” o “marito” un divorziato risposato stiamo facendo un uso falso del linguaggio. L’amore verso le persone che vivono questa condizione non si esprime nell’acquiescente accettazione dello status quo, ma aiutandole a comprendere che si tratta di «una situazione irregolare e pericolosa che è necessario risolvere».
Ognuno vede quanto tale compito sia arduo: ma dobbiamo almeno provarci.
IL TIMONE N. 87 – ANNO XI – Novembre 2009 – pag. 14 – 15
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