Nei Paesi dell’Unione Europea si contano più di un milione di divorzi l’anno. Con costi altissimi per l’intera società. E con famiglie distrutte, nuovi problemi, solitudine, incertezza, sensi di colpa, crisi di identità. Sono i frutti di una falsa libertà
È nella famiglia, nei legami di paternità e di maternità, che «l’uomo riceve le prime determinanti nozioni intorno alla verità e al bene, apprende che cosa vuol dire amare ed essere amati e, quindi, cosa vuol dire in concreto essere persona» (Centesimus annus, n. 39).
La mentalità individualistica, invece, ha la pretesa di sostenere che l’uomo diventa autonomo al di fuori di ogni legame. Anzi, ogni legame è considerato un peso, un vincolo negativo. Storicamente, il divorzio è stato introdotto nei vari Stati europei proprio in nome della libertà dell’individuo da ogni vincolo. In realtà, l’incremento dei divorzi negli ultimi decenni ha dimostrato che, fuori da un legame familiare, per l’uomo si aprono le porte non della libertà e dell’autonomia, ma della solitudine, dell’incertezza, dei sensi di colpa e della crisi di identità. Il divorzio è per sua stessa natura la distruzione della famiglia. Ma è anche, per le sue conseguenze, la distruzione della persona.
L’incremento dei divorzi
Secondo un’indagine Eurostat del 2010, dallo 0,8 per mille persone del 1965, i divorzi nell’Unione Europea sono quasi raddoppiati in appena dieci anni (1,4 per mille del 1975), per arrivare al 2 per mille nel 2003, percentuale rimasta stabile fino al 2007. Ma il trend continua a peggiorare: secondo un comunicato dell’Istituto di Politica Familiare, nell’Unione Europea si calcolano più di un milione di divorzi all’anno, vale a dire che ogni 33 secondi si rompe un matrimonio. Spagna e Italia rappresentano statisticamente i casi di incremento più rapidi e impressionanti: in Spagna, negli ultimi cinque anni i divorzi sono passati da 50.000 a 100.000; per quanto riguarda l’Italia, l’ISTAT ha calcolato, nel 2009, 54.456 divorzi, il doppio rispetto al 1995 (+ 101%: 80 divorzi per 1.000 matrimoni contro 181 per mille nel 2009).
Le conseguenze dei divorzi
Ma il vero dramma lo si percepisce quando si analizzano le conseguenze dei divorzi, a partire dai costi economici e sociali. Prendiamo due Paesi a titolo di esempio: l’Inghilterra e l’Italia. Per quanto riguarda l’Inghilterra, tra assistenza sanitaria e sociale, sussidi per la povertà da erogare ai divorziati, spese giudiziarie e spese per assegnazione di case statali e assistenza scolastica, un centro studi britannico, la Relationship Foundation, ha calcolato, nel 2009, un costo per fallimenti matrimoniali di 41,7 miliardi di sterline (circa 50 miliardi di euro), pari a 1.350 sterline annue per ciascun contribuente. In Italia, la spesa minima per una separazione consensuale è di circa 3.300 euro comprensiva di consulenza legale (1.300 euro la tariffa minima) e riacquisto dei prodotti prima utilizzati in coppia. Ma se si arriva al divorzio vanno aggiunte ulteriori spese, come quelle per le sedute dallo psicologo (in media 900 euro per 10 sedute), assegni di mantenimento (550 euro al mese), un nuovo mutuo da accendere (600 euro al mese), arrivando a spendere anche quasi 23mila euro in un anno. Per quanto riguarda lo Stato, i costi sostenuti dai contribuenti solamente per separazione, divorzio e volontaria giurisdizione sono ammontati solo per il 2009 a circa 440 milioni di euro.
Ma ancora più drammatici sono i costi psicologici e affettivi, che colpiscono i coniugi che divorziano (la solitudine, l’abbassamento dell’autostima, la depressione), ma soprattutto i figli, le vittime che pagano in modo particolarmente drammatico le conseguenze del divorzio. Innanzitutto, rimanere con un solo genitore porta, spesso, a evidenti forme di scompensi psicologici; se si considera che è la madre alla quale vengono solitamente affidati i figli, si determinano in loro due effetti: la riduzione e la scomparsa del ruolo del padre, e il primato della madre come unico genitore prevalente.
Gli psicologi sono concordi nel dire che nei figli che hanno la madre come genitore prevalente è ridotta la capacità di controllare le pulsioni, mentre è più forte l’aspetto narcisistico della personalità. Nel complesso si tratta di persone più fragili emotivamente e psichicamente. A questi scompensi si aggiungono spesso forme di depressione causate dalla perdita di una stabilità familiare e affettiva, di una sicurezza economica e, in molti casi, dal fatto che i genitori “scaricano” sui figli le loro frustrazioni per il fallimento matrimoniale. Se poi i divorzi sono accompagnati da violenze fisiche tra i coniugi, o addirittura subite anche dai figli, la percentuale di comportamento a rischio di questi giovani aumenta a dismisura, e può andare da forme di devianza come l’uso di droga e di alcool, a comportamenti criminali (la violenza subita o alla quale hanno assistito la somatizzano e la scaricano contro altre persone), fino ad arrivare al suicidio: la maggiore percentuale di suicidi negli adolescenti è proprio legata al trauma causato dal divorzio dei loro genitori. È evidente come i traumi che i divorzi portano con sé contribuiscano, a livello sociale, all’aumento dell’instabilità e della criminalità.
Dal “per sempre” al “finché dura”
La gravità del divorzio ha ricadute anche sul futuro della società. Di fronte ai fallimenti delle relazioni, le persone tendono a chiudersi in se stesse e a non fidarsi. Questo alimenta, da un lato, la già diffusa mentalità individualistica, la quale mette al centro di tutto non più l’importanza della famiglia come legame amorevole nella quale la persona cresce e diventa se stessa, ma l’individuo con i suoi piaceri, e, dall’altro, accresce, nei giovani, la sfiducia nel matrimonio inteso come dono reciproco di un uomo e di una donna “per sempre”. Il rischio è che si tende a sostituire una relazione fondata sul “per sempre” con una relazione fondata sul “finché dura”, nella quale ciò che porta un uomo e una donna a unirsi non è più un affidarsi totalmente all’altro/a, ma esclusivamente il piacere che si prova nello stare insieme. “Finché dura”, ovviamente. Dopodiché, quando questo piacere finisce, ci si può lasciare senza troppi problemi.
Se questa tendenza dovesse affermarsi definitivamente, sarebbe la fine della famiglia, e le conseguenze sarebbero drammatiche: i rapporti umani diventerebbero sterili, perché il singolo non impegnerebbe più tutto se stesso nel legame con l’altro, e tutto si misurerebbe esclusivamente in termini utilitaristici; l’instabilità e l’incertezza delle persone diventerebbero croniche, perché non esisterebbe più un legame stabile, “per sempre”; inoltre, un rapporto improntato sul piacere non è aperto alla generazione dei figli, tende a isolarsi e a mettere in secondo piano la solidarietà verso gli altri. Ma senza certezze, senza legami stabili e amorevoli l’uomo non diventerà mai se stesso, sarà condannato alla precarietà e rimarrà esposto al rischio della solitudine, con tutte le conseguenze negative in termini psicologici, affettivi e identitari alle quali abbiamo accennato, mentre una società senza figli è destinata a morire.
Ricorda
«In un momento storico nel quale la famiglia è oggetto di numerose forze che cercano di distruggerla o comunque di deformarla, la Chiesa, consapevole che il bene della società e di se stessa è profondamente legato al bene della famiglia (cfr. “Gaudium et Spes”, 47), sente in modo più vivo e stringente la sua missione di proclamare a tutti il disegno di Dio sul matrimonio e sulla famiglia, assicurandone la piena vitalità e promozione umana e cristiana, e contribuendo così al rinnovamento della società e dello stesso Popolo di Dio».
(Giovanni Paolo II, Esortazione apostolica Familiaris consortio, n. 3).
IL TIMONE N. 114 – ANNO XIV – Giugno 2012 – pag. 16 – 17
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