Circa due anni or sono, una nuova iniziativa ha preso avvio nella periferia di Roma: nel circondario di Tor Tre Teste sono stati istituiti sei luoghi di incontro la cui denominazione ufficiale è quella di “Domus Ecclesiae”. In questi luoghi, collocati all’interno di case private, di civili abitazioni, i cattolici del luogo usano riunirsi col consenso del loro pastore per momenti di preghiera, di insegnamento, di assemblea.
Non trascrivo questa notizia da un papiro di duemila anni fa, si tratta infatti di un’iniziativa pastorale nata nel 2011 nella parrocchia di Dio Padre Misericordioso e a quanto mi risulta tutt’ora fiorente. Certo non si possono biasimare i cattolici locali, che giustamente preferiscono pregare a casa propria che non nella baracca di Meier, ma la denominazione scelta per qualificare questi incontri di preghiera dimostra quanto sia ancora saldo un malinteso circa i luoghi di culto dei primi cristiani.
È infatti opinione corrente che nei tempi che precedettero l’avvento dell’imperatore Costantino e del suo atto di tolleranza che diede avvio alla grande stagione delle costruzioni basilicali cristiane, i cristiani vivessero la propria religione senza troppe formalità, riunendosi umilmente nelle proprie case, pregando e celebrando il mistero eucaristico con una naturalezza che non dava spazio a ritualismi. Questa idea, o meglio questo ideale, si alimentava proprio dalla notizia che i primi luoghi del culto cristiano non avessero nome di templi ma semplicemente di domus, cioé case, e il romanticismo un po’ intimista che questa osservazione è stata sempre in grado di suscitare ha avuto un’importanza crescente nel corso del Novecento. L’intera concezione del culto cattolico ne è stata influenzata, e l’errore che vi era a monte ha lasciato poi le proprie tracce fin nell’estetica promossa per l’edilizia e l’arte di chiesa a partire dagli anni Trenta, informata ad una semplicità più che francescana se non a un vero e proprio pauperismo liturgico che avrebbe lasciato sbigottito San Francesco.
Le Domus Ecclesiae, quelle vere, non erano in realtà delle semplici case dove riunirsi in preghiera come quelle istituite oggi dalla parrocchia romana, né erano luoghi privi di carattere tipicamente religioso e rituale. Al contrario, erano un insieme di ambienti organizzato intorno a degli atrii, cioè a dei cortili centrali, al modo delle case di abitazione, ma dove ogni stanza assolveva a una funzione liturgica ben determinata. Già da allora la proclamazione della Parola e la liturgia sacrificale erano parti rituali ben distinte tra loro, e ad esse erano destinati spazi diversi, appositamente arredati e organizzati. Al battistero era riservato un ambiente a parte, e in molti casi sembra che i neofiti non battezzati si radunassero in altri ambienti separati.
All’interno di ogni ambiente, poi, sono state ritrovate non di rado le tracce di elementi di separazione, come transenne o cancelletti, corrispondenti alle nostre balaustre, destinati a mettere in evidenza punti particolari dello spazio o a isolare alcuni fedeli da altri. Le testimonianze archeologiche sono ormai numerose, da ultima la domus ritrovata nel corso di scavi archeologici al di sotto della cripta della cattedrale di Nola nell’estate dello scorso anno, e tutte concordano nel dimostrare che le Domus Ecclesiae erano luoghi articolati e complessi, adatti ad una comunità variegata e capace di vivere e comprendere al suo interno la complessità rituale che caratterizza la liturgia cristiana nei suoi diversi momenti iniziatici.
Se è vero che con l’epoca costantiniana e soprattutto dal momento in cui le basiliche entrarono in funzione i riti dei cristiani dovettero necessariamente andare incontro a inevitabili mutamenti, è pur vero che le radici dello sviluppo costantiniano erano già pulsanti nelle antiche domus, che proprio come radici restarono sovente alle fondamenta di tante basiliche che vi furono costruite sopra. Così, a Roma, le chiese titolari cardinalizie si ergono molto spesso laddove era collocata in principio una domus ecclesiae, rappresentando così un legame di continuità diretto e manifesto tra la Chiesa militante, in carne ed ossa, e la Chiesa delle origini.
IL TIMONE N. 130 – ANNO XVI – Febbraio 2014 – pag. 47
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