Stupefacente miracolo: la guarigione istantanea da tubercolosi ossea fistolosa e la ricomparsa immediata di 10 cm di femore asportato. Intervista a Elisa Aloi, messinese, che nel 1958 è stata miracolata a Lourdes.
Il suo è stato il 61° miracolo di Lourdes (su 66 totali) accertato dalla scienza e approvato dalla Chiesa. Eppure la signora Elisa Aloi da Messina, 73 anni, non è affatto quella baciapile per riconoscenza che ci si aspetterebbe, magari con la casa zeppa di Madonne cui prostrarsi e il rosario sempre in mano, da far toccare ai devoti in visita: una specie di «santona», insomma.
No. La sua fede è saldissima, certo, ma anche teologicamente matura e assai concreta, poco «miracolistica»: nel senso che si realizza in una normale esistenza familiare e in un’intensa esperienza di carità. Magari qualche volta la chiamano in tv (l’ultima volta, a febbraio, è stato a «I fatti vostri» di Massimo Giletti) per testimoniare l’evento prodigioso di cui è stata protagonista; ma gli unici a sorprendersi sono i nipotini, per i quali il nonno raccoglie anche i ritagli dei molti articoli che parlano della miracolata.
Signora Aloi, racconti dunque anche a noi la sua incredibile storia.
«Ero orfana e vivevo con i nonni paterni. Intorno ai 15 anni cominciò un dolore al ginocchio destro (le cronache dicono che Elisa era caduta dal tetto per aiutare il fratellino più piccolo; ma lei sostiene che l’infortunio avvenne diverso tempo prima e che comunque “non è provato che la malattia dipendesse da quella caduta”; quindi il miracolo non è una sorta di “risarcimento dovuto” per la sua generosità, ndr.) e una tumefazione. Fu necessario incidere e ci si accorse allora che le ossa non esistevano più; si trattava di tubercolosi ossea fistolosa».
Una malattia grave, difficile da guarire.
«Difatti sono stata a letto immobile per 11 anni, ingessata per tutto il corpo: posso dire che mi sono coricata bambina e mi sono alzata signorina. Fu un calvario vero e proprio, con decine di interventi perché il male salì al bacino e passò alla gamba sinistra; la malattia portava in necrosi le ossa, che si frantumavano. Avevo sempre febbre altissima e dolori. Fui ricoverata prima a Messina e poi a Palermo; infatti non potevo nemmeno rimanere a casa, sia perché nessuno poteva accudirmi, sia per il fatto che la secrezione dalle gambe era molto abbondante e fetida, per cui stavo in stanza sempre da sola. Leggevo, scrivevo, mandavo lettere… Proprio per questi scritti, pubblicati sul bollettino di una confraternita romana, nel 1956 come premio mi offrirono un viaggio a Lourdes, il primo».
Lei conosceva Lourdes?
«Assolutamente no, nessuno mi aveva mai parlato di quelle apparizioni. Per me fu un grandissimo regalo, anche perché era un’occasione per uscire dall’ambiente dell’ospedale. Così fui a Lourdes nell’agosto 1956 con l’Unitalsi, in treno e su una barella; avevo 25 anni. Mi ha colpito la grande palestra affollata di ammalati, tra i quali mi vedevo la migliore, anche se ero immobile. Mi portavano alle piscine e, siccome non potevo fare il bagno perché ingessata, mi mettevano un telo bagnato e strizzato addosso. Al ritorno comunque stavo ancora peggio. L’anno seguente l’Unitalsi ripeté il regalo, ma tornai che stavo malissimo».
Poi ci fu il terzo viaggio, quello del miracolo.
«Nel 1958 mi avevano asportato 10 cm di femore e dovetti firmare una liberatoria perché il primario non voleva assolutamente che mi muovessi. Il penultimo giorno a Lourdes stavo molto male; alle piscine mi misero come sempre il telo bagnato sopra il gesso. Subito sentii un calore dai piedi alla testa; pensai che stavo morendo. Invece cominciavo a muovere le dita dei piedi; credevo che fosse suggestione, comunque lo dissi al capo medico che sull’Esplanade passava tra i malati: mi medicava lui e conosceva bene le mie condizioni. Non mi diede retta. Ma io gridai più forte: “Muovo le gambe!”. Allora il dottore s’avvicinò, sollevò le coperte e s’accorse che le ferite erano chiuse e le cannucce di drenaggio pulite e posate accanto alle gambe. Mi ricoprì e disse di non dire nulla a nessuno: aveva paura che la folla si sarebbe riversata lì, soffocandomi».
E poi?
«Al Bureau medicale (l’ufficio medico del santuario, ndr.) mi visitarono e punsero la gamba: ne uscì sangue vivo. Io chiedevo che mi togliessero il gesso, sentivo di poter camminare, ma non era consentito: doveva farlo l’ospedale di partenza. Giunta a Messina mi fecero delle radiografie di cui non mi davano l’esito; solo la sera il primario che mi aveva operato mi disse che dalle lastre appariva non solo la mia guarigione, ma lo stato perfetto delle ossa: come se non fossi mai stata malata. Mi alzai in piedi; il professore più tardi dichiarò di aver visto un fantasma: per 3 giorni non venne all’ospedale per lo choc. Rimasi in osservazione 6 mesi, camminavo, aiutavo le infermiere; poi tornai a casa».
Come avvenne il riconoscimento del miracolo?
«Ci fu una sequela di visite a Marsiglia, a Lourdes. Dopo 5 anni la scienza si pronunciò sulla guarigione inspiegabile, la Chiesa approvò nel 1965, pochi mesi prima del mio matrimonio. Miracolo nel miracolo: per i medici non dovevo avere figli, invece ne ho avuti 4».
E a loro che cosa ha raccontato?
«Non avevo neanche bisogno di dirlo, mi vedevano partire per Lourdes (vado tutti gli anni come volontaria) e mi sentivano parlare. Neanche mio marito, quando eravamo fidanzati, sapeva del miracolo: gliene parlavo come se fosse successo a un’altra persona; che si trattava di me lo ha appreso dai giornali nel maggio 1965. Certo, sapeva che ero stata ammalata, vedeva i segni alle gambe: infatti non ho voluto fare alcuna plastica perché le cicatrici sono la firma di Dio e non voglio cancellare il suo autografo».
E dopo, la sua vita com’è cambiata?
«Dedico sempre mezza giornata alla famiglia “di dentro” e mezza a quella “di fuori”: i malati, gli anziani nelle case di riposo e da 5 anni una volta alla settimana i carcerati di Messina. Ho fatto anche la catechista e il ministro straordinario della comunione. Per il resto la nostra è una famiglia normalissima, cerchiamo di vivere meglio possibile spiritualmente e moralmente».
Intendevo: è diventata più cristiana dopo il miracolo?
«No. Il vero incontro con Cristo avvenne durante la malattia, in quella salita ripida del Calvario compiuta insieme a Lui. Adesso amo senza chiedermi perché; Dio per me è tutto e la Vergine pure. La gratitudine c’è; ma tutti dovremmo essere grati del dono della vita, no?».
Si è mai chiesta perché è capitato proprio a lei?
«Naturalmente. Ma noi non conosciamo il disegno di Dio; vediamo le cose esteriori e non conosciamo quelle intime.
Un Padre non può fare particolarità tra i figli, quindi non possiamo spiegarci un miracolo con la logica umana, perché non sarebbe più mistero. Mi incontro tuttora con alcuni malati che vennero con me nel 1958, sono ancora in barella o sulla sedia a rotelle ma mi dicono che – vedendo me guarita – è un po’ come se fossero guariti loro. Non hanno invidia, perché nell’amore non c’è posto per l’invidia. Il miracolo non appartiene alla persona che lo riceve, ma è il segno di Dio che va manifestato agli altri, perché possano capire come Cristo è con noi».
E che cosa direbbe a chi comunque, anche vedendo ciò che le è capitato, non è disposto a credere?
«Credere è una scelta personale, ognuno fa come vuole; l’importante è che Dio mandi il suo messaggio, poi l’uomo resta libero. Dopo il mio miracolo ci sono state molte conversioni, anche di medici che mi curavano. Il resto lasciamolo a Dio: noi siamo solo mezzi; diamo la voce, le mani, i piedi a Lui».
LOURDES
Il messaggio di Lourdes può essere riassunto in quattro punti, proposti con atti prima che a parole, e più che a parole, secondo lo stile della Bibbia e soprattutto dei profeti. Quattro punti che sono contenuti in quattro parole semplicissime e che governano la vita del pellegrinaggio: povertà, preghiera, penitenza, “Io sono l’Immacolata Concezione”».
(René Laurentin, Lourdes. Cronaca di un mistero, Mondadori, Milano1996, p. 247).
Dossier: Lourdes
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