Giovanni Paolo II nel libro autobiografico Dono e Mistero racconta: «Ci fu un momento in cui misi in qualche modo in discussione il mio culto per Maria ritenendo che esso, dilatandosi eccessivamente, finisse per compromettere la supremazia del culto dovuto a Cristo. Mi venne allora in aiuto il libro di san Luigi Maria Grignion de Montfort che porta il titolo di “Trattato della vera devozione alla Santa Vergine”». Fu così che il Papa si rese conto che non solo «Maria ci conduce a Cristo», ma «che anche Cristo ci conduce a sua Madre» (Dono e Mistero, pp. 37-38). Fu un momento decisivo nella vita del Papa che segnò definitivamente la sua spiritualità e non mancò di lasciar traccia anche nel suo stemma papale: Totus tuus. Chi – soprattutto in questi tempi – non ha mai provato un sentimento simile? Il pensiero che Maria ci porti via l’intimità con Gesù, che ci faccia quasi da schermo, che una volta trovato Gesù – magari per mezzo di Maria – il rapporto con lei sia ormai inutile, che la Scrittura – che ci parla tutta di Cristo – taccia invece su Maria e non fondi quindi una tenera devozione nei suoi confronti…
Questo dialogo tra Gesù e la Madre con il «discepolo che egli amava» rappresenta invece la risposta della Bibbia a questo dubbio. Una risposta particolarmente «pesante» per diverse ragioni. Questo dialogo si situa infatti nell’immediata prossimità della morte di Gesù. I cristiani non hanno tardato ad osservare che, se si sommano le frasi pronunciate da Gesù così come sono riportate dai Vangeli quando raccontano gli ultimi momenti della sua vita terrena, si ottiene il numero sette. Sono le famose «sette parole di Cristo in Croce». «Parole» non nel senso stretto di «vocaboli» ma in quello più largo e proprio delle lingue semitiche e arcaiche in genere, di «frasi», «insegnamenti», «detti». Insegnamenti ultimi, sulla bocca di uno che sta per morire. Un testamento spirituale dunque. In questo caso chi muore non lascia beni terreni, ma si preoccupa di dare istruzioni perché vengano accolti quei beni spirituali che sta riversando sul mondo e che sono lo scopo di tutta la sua vicenda terrena e di quell’“ora” di dolore che sta vivendo e che soli possono portare la definitiva salvezza tanto attesa.
Una lettura dell’episodio che si mantenesse alla sua superficie, cioè alla pura “lettera”, potrebbe interpretarlo come l’ovvia preoccupazione di provvedere alla madre dopo la sua morte. Così – semplicemente – la affida al suo discepolo prediletto perché ne abbia cura come un figlio ha cura della propria madre. L’espressione «da quel momento il discepolo la prese nella sua casa» sembra rafforzare questa lettura… In fondo si tratta di un problema di “sistemazione”. Questa interpretazione però cozza contro diversi ostacoli insormontabili: il termine “donna” usato da Gesù per rivolgersi alla madre è veramente strano, una stranezza che si scioglie invece se il riferimento è più ampio e trascende l’episodio familiare immediato per abbracciare tutta quanta la storia della salvezza. Qui Maria non è solo una singola persona tra tante possibili, ma “la donna” che si trova ad affiancare il nuovo Adamo in procinto di “far nuove tutte le cose”. «Io porrò inimicizia tra te e la donna, tra la tua stirpe e la sua stirpe: questa ti schiaccerà la testa e tu le insidierai il calcagno» (Gn 3,15). Bisogna poi considerare che ai piedi della croce era presente anche «la madre dei figli di Zebedéo» (Mt 27,56), cioè la madre “terrena” dell'apostolo Giovanni, per cui rivolgersi al discepolo proponendogli un'altra “madre” appare assai poco rispettoso se le due maternità dovessero intendersi come riguardanti entrambe l’ambito di questa vita, di “questa generazione”. C’è poi il fatto abbastanza ovvio che preoccuparsi della madre solo in quest’ultimo momento non appare molto coerente con l’insieme della vita di Gesù, perché sono anni ormai che ha assunto il ruolo di maestro itinerante, lasciando la casa paterna e quindi anche separandosi da sua madre… Soprattutto, è tutto lo stile proprio a Giovanni che non consente una tale interpretazione “minimalistica”. Giovanni certamente racconta eventi, fatti realmente accaduti che hanno una consistenza “mondana”, ma questi sono sempre scelti con cura al fine di mettere in luce per mezzo di essi ed attraverso di essi la realtà ultima e nascosta, “divina”, della persona e dell’agire di Gesù, così come è chiaramente annunciato nel prologo. Qui il “discepolo” non è più dunque il solo Giovanni, ma ogni credente in Cristo ed è ad ogni credente in quanto tale che Gesù, nel momento in cui dona sé stesso, fa anche il dono della propria Madre. La traduzione «il discepolo la prese nella sua casa» è molto imperfetta… Eis tà ídia dovrebbe essere piuttosto tradotto come: tra le sue cose più care, nella sua intimità propria…
Ma l’intimità propria del discepolo è la sua fede. Maria dunque come madre spirituale del credente è una questione di fede, quella fede che la Chiesa ha approfondito e sviluppato proclamandola Madre di Dio ed Immacolata, considerando sempre la sua posizione nella storia della salvezza come assolutamente unica e non paragonabile a quella di qualunque altro santo. È vero dunque: Maria ci conduce a Gesù, ma anche Gesù ci conduce a Maria e ci chiede di accoglierla con convinzione ed amore nel tesoro della nostra fede e della nostra vita.
IL TIMONE – N.59 – ANNO IX – Gennaio 2007 – pag. 60
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