«Il fatto che in campo ecumenico si indichi nel primato il principale ostacolo non significa che esso vada rimosso, ma che sia tolto ciò che ne impedisce la giusta ricezione. Piuttosto, il primato impedisce la divaricazione del giudizio ed è essenziale all’unità piena, cattolica». Parla don Nicola Bux
Dal 26 al 28 novembre 2014 a Bose, sede della comunità fondata da Enzo Bianchi, si è tenuto
un convegno dal titolo “Storicizzare l’ecumenismo”.
I lavori sono stati promossi dalla cosiddetta “scuola di Bologna”, quella che, secondo monsignor Agostino Marchetto, tra i massimi esperti del Vaticano II, avrebbe «dato un immagine del Concilio distorta e contraddittoria. Del tutto mistificatrice ». Per questo il vaticanista Sandro Magister ha scritto che questo convegno è parte di un programma che «sottintende una riforma integrale della Chiesa cattolica, a cominciare dalla decostruzione del papato nella sua forma attuale ». Magari partendo da «un nuovo equilibrio tra sinodalità e primato».
Un tema che, al di là delle polemiche, merita attenzione. «Giovanni Paolo II con l’enciclica Ut unum sint, ha dichiarato la disponibilità a rivedere le forme di esercizio del primato – ci dice don Nicola Bux –. Ad esempio, in relazione all’auspicato approfondimento dello statuto delle conferenze episcopali regionali e alle assemblee continentali del sinodo, si potrebbe riprendere la pratica dei concili regionali. Tuttavia, anche se fossero convocati con più frequenza, rimarrebbero pur sempre atti straordinari. La potestas del primato di Pietro invece è ordinaria, perché è quotidiana la necessità che la communio sia innanzitutto comunione di
giudizio, altrimenti l’unità nella diversità è un flatus vocis».
Un ecumenismo ambiguo
L’ecumenismo è sempre stato considerato il terreno prediletto su cui innestare la “riforma” del papato: «La prima condizione perché il papato si rinnovi è quella ecumenica», scriveva il giornalista Giancarlo Zizola. Perché in fondo proprio il primato di Pietro ne costituirebbe l’ostacolo principale, soprattutto per l’unità dei cristiani. Per don Bux, docente di liturgia e consultore di alcune congregazioni vaticane, «il fatto che in campo ecumenico si indichi nel primato il principale ostacolo, non significa che esso vada rimosso, ma che sia tolto ciò che ne impedisce la giusta ricezione, senza accontentarsi di un “consenso differenziato”. Piuttosto, il
primato impedisce la divaricazione del giudizio ed è essenziale all’unità piena, cattolica, che consiste nell’avere quell’unico pensiero di Cristo (cfr Atti 2,42-46) e che si manifesta con l’essere unanimi nel parlare; unità che nel concepirsi insieme, “un cuor solo e un’anima sola”, ha un giudizio più grande».
La riforma del papato è un vecchio obiettivo dell’officina bolognese. Già prima del conclave del 1978, la “scuola” consegnava ai cardinali un dossier dove indicava chiaramente un «rinnovamento del servizio papale nella Chiesa». Addio al Papa monarca, avanti con nuovi gesti ecumenici, capacità legislativa vera e propria al sinodo dei vescovi. Tutte proposte che più o meno tornano anche nel dossier che lo stesso gruppo ha consegnato ai cardinali prima del conclave del marzo 2013.
Secondo i “bolognesi” bisognerebbe ritornare alle origini, almeno a prima della metà del 400. Dopo, infatti, la sovranità ecclesiastica avrebbe subito una involuzione “politica” che del papato ha evidenziato soprattutto la dimensione giuridico-istituzionale.
Dogma e storia
«Il primato romano – dice don Bux – non è stato causato dal frangente politico dell’impero.
Il fatto che la dottrina del primato sia stata definita in modo concettualmente rigido nel Vaticano I significa che la sostanza della dottrina sul primato è elemento essenziale della fede cattolica ed è fondato biblicamente sulle promesse di Cristo a Pietro.
Il dogma ha sintetizzato la storia e precisato la dottrina, non ha inventato nulla. D’altra parte, fermo restando l’enunciato dogmatico del Concilio Vaticano I secondo il quale “l’apostolo Pietro […] ha ricevuto direttamente e immediatamente da nostro Signore Gesù Cristo un primato di giurisdizione autentica e propriamente detta”, si potrebbe da parte ortodossa, come annotava Joseph Ratzinger, accettare che “il cattolicesimo conosce oltre al concilio ecumenico, un’altra istanza di conferma della fede che è il successore di Pietro” (Cfr. Il sale della terra, Cinisello B. 1997, p 209). Questa istanza era vissuta molto tempo prima che fosse formulato il dogma dell’infallibilità pontificia. La stessa cosa è avvenuta per i concili, che sono stati tenuti quando ancora non esisteva la teoria conciliare e il conciliarismo; il concilio di Nicea parla delle tre sedi, Roma, Alessandria e Antiochia, quali istanze dipendenti da Pietro. La tradizione petrina è quindi ben più ampia».
Il Sinodo non è un parlamento
L’altro grande cavallo di battaglia del gruppo di studiosi che fa capo a Enzo Bianchi e Melloni è quello di una sinodalità che va nel senso di una maggiore “democratizzazione” della Chiesa. La battaglia affonda le radici al Concilio, in anni dove la spinta “democratica” in tutti gli ambiti sociali era come un dogma.
«L’espressione cum Petro et sub Petro manifesta la collegialità cattolicamente intesa – prosegue don Bux –, l’esercizio del primato non avviene come per il potere mondano, ma è regolato dal principio della comunione.
La Chiesa cattolica intende la collegialità come comunione gerarchica col capo del collegio e con le membra: lo affermano Lumen Gentium, n. 22, e lo chiariscono la Nota esplicativa previa, al n. 2, e il Codex canonum al can. 43. Il concilio degli apostoli a Gerusalemme mostra l’importanza della parola di tutti gli apostoli, mentre la parola di Pietro è più autorevole perché parla anche “a nome” degli apostoli.
Analogamente: “il vescovo di Roma come Pietro parla a nome del gruppo apostolico e serve l’unità della comunità… nel rispetto dell’autorità di Giacomo, capo della Chiesa di Gerusalemme” (Enciclica Ut Unum sint, 97: EV 14, 2869). È questo il modello-base di ministero universale della Chiesa di Roma verso le chiese particolari nel nuovo millennio».
Il teologo Severino Dianich, altro esponente vicino alla “scuola di Bologna”, ha più volte auspicato una riforma dell’ordinamento canonico in grado di recepire questa “nuova” sinodalità (che il Concilio avrebbe indicato, ma non specificato), come capitolo ineludibile dell’ecclesiologia. Di fatto, ci si vorrebbe incamminare verso il riconoscimento di un effettivo potere deliberativo per queste assemblee. «Il sinodo dei vescovi – dice don Bux – è convocato periodicamente non per esaurire la collegialità, ma per manifestarla col criterio rappresentativo (Cfr. Giovanni Paolo II, Pastores gregis, n. 58). Si discute circa la opportunità che non sia solo consultivo ma deliberativo. Ancora una volta si affaccia l’impostazione delle società mondane dove si delibera con voto a maggioranza. Non si vuole disprezzare tale strumento, ma siamo sicuri che risiedano sempre nel consenso della maggioranza la verità e la decisione da prendere?
Il concilio Vaticano II afferma che il vescovo di Roma ed ogni vescovo sono il “principio visibile” rispettivamente della Chiesa universale e di quella particolare, soprannaturalmente in rapporto al principio invisibile di unità che è lo Spirito Santo. La Chiesa ha questa natura divino-umana perché è il mistero del corpo di Cristo, altrimenti sarebbe come un parlamento in cui l’unità dipende dal farsi e disfarsi delle maggioranze».
No al federalismo dottrinale
Il rapporto tra sinodalità e primato è l’altra faccia della medaglia di quello tra centro e periferia, tra curia romana e conferenze episcopali.
Ma va anche oltre. Ne dava autorevole esempio il teologo Karl Rahner, intervistato da Panorama nel 1984. «Bisogna chiedersi, diceva, se la morale matrimoniale africana debba continuare a ricalcare quella europea; bisogna affrontare il problema della concezione del divenire del matrimonio, insieme all’altra questione, se cioè tutte le forme di poligamia africana siano davvero incompatibili con il cristianesimo.
È assolutamente urgente una effettiva, legittima decentralizzazione della Chiesa, con tutte le conseguenze». È paradossale, ma proprio gli africani al recente sinodo sulla famiglia hanno mostrato che non hanno alcuna voglia di far passare la poligamia come elemento valido per l’inculturazione del vangelo, anzi hanno chiesto esattamente il contrario.
Cioè che non si ceda la verità al miglior offerente, ma che proprio la verità dia un giudizio sull’oggi e sulle culture.
«Pietro e i suoi successori, nella Chiesa di Roma, hanno la posizione “chiave” di suprema autorità nel dirimere tra le chiese le questioni per le quali sin dai primi tempi si faceva ricorso: non una funzione amministrativa, ma di salvaguardia dell’unanimità della comunione. Questo servizio del primato romano è ancora più necessario nel contesto odierno. L’accordo e la concordia con Roma garantisce che le particolarità non deflagrino in molteplicità ma contribuiscano all’unità universale a cui essa presiede.
Quindi – conclude Bux – nessuno abbia paura del cum Petro et sub Petro, perché è la sottomissione vicendevole, come insegna san Paolo, necessaria per essere nella carità. La sinodalità potrebbe anche distruggere la Chiesa, qualora si trasformasse in un “collettivo” e non fosse un’attuazione effettiva della dimensione collegiale del ministero episcopale. Questo, ovviamente, non vuol dire che il Papa possa fare ciò che vuole, ma deve muoversi nei limiti legali e dommatici del papato e non dell’arbitrarietà, come qualsiasi ufficio e potestà nella Chiesa, per il fatto che la Chiesa è di Cristo e di nessun altro». â–
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