Nei Paesi post-cristiani l’omosessualità, lentamente ma inesorabilmente, fa outing e, anzi, par mostrare un’immagine ben più salda di quella offerta dalle famiglie cosiddette normali, cioè composte da coppie etero. Di queste ultime, le statistiche ci narrano la disgregazione irreversibile: separazioni in aumento e divorzi in diminuzione (perché sempre meno separati hanno voglia di riprovarci), padri che stuprano le figlie, figlie che uccidono le madri, mariti che ammazzano le mogli e viceversa, sterminii del parentado, liquidazione di figli drogati, eccetera. Oltre, naturalmente, ai classici adultèri e ai meno classici “club di scambio”. Le coppie omossessuali, invece, ci vengono presentate come solide, durature e felici. Dai media, almeno. Per esempio, nessun quotidiano locale ha dato spazio alla notizia del “matrimonio” di un ministro norvegese col suo “partner”, laddove grande scalpore aveva suscitato nella stampa scandinava il battibecco in aereo fra il principe ereditario e la moglie (una ragazza-madre dal passato burrascoso) afflitta dalla paura del volo.
Ora, è noto che le coppie felici quasi sempre vogliono coronare il loro amore con della prole; e, quelle orno, periodicamente, più o meno timidamente, esternano il cruccio di non poter farlo. Non è che la scienza odierna non sia in grado di ovviare l’evidente problema biologico, no. Gli intoppi per loro sono altri, e segnata mente le Chiese e la legislazione. Le religioni tradizionali, a parte qualche frangia protestante, non ne vogliono sapere. Soprattutto la islamica, la quale, per giunta, si fonde con la legge civile (e penale).
Le leggi dei Paesi “avanzati”, ahimè, sono ancora troppo incrostate di mentalità giudeo-cristiana e non consentono di aggirare gli inghippi tramite l’adozione.
Che fare, dunque? Niente, attendere e continuare a lavorare di lobbying in attesa di tempi migliori o di qualche fatto clamoroso che emozioni l’opinione pubblica (è così che, ormai, si inducono i legislatori a fare le leggi).
Due omosessuali famosi, gli stilisti Domenico Dolce e Stefano Gabbana, hanno approfittato delle interviste che sono seguite alle ultime passerelle milanesi per esternare ancora un volta la loro sospirata ambizione: un figlio.
Anzi, “almeno otto-dieci” (da adottare) per quanto riguarda Dolce.
Gabbana invece ne vorrebbe solo uno, ma tutto suo.
Però, quest’ultimo ha aggiunto qualcosa di interessante, alcune frasi che meritano una certa attenzione: “Io, del resto, potrei anche averne uno, ma con metodi contrari alla Chiesa cattolica. lo sono cattolico e omosessuale. E la Chiesa dice che i figli devono nascere dall’amore di un uomo e di una donna e io non amo una donna. È una cosa molto personale, è un travaglio mio interno”.
Non so se, data la cadenza bimestrale del Timone, quando queste righe vedranno la luce il Gabbana avrà cambiato idea. Resto a questa dichiarazione, che mi sembra esemplare.
È presumibile che la persona, dato il sub mestiere, non abbia molto tempo da dedicare all’approfondimento teologico del suo dilemma morale.
Forse non ne avrebbe neanche gli strumenti. Ma, pur non capendo bene e, magari, non essendo d’accordo, si adegua.
Potrebbe tramutare il suo caso privato in un cavallo di battaglia, ne avrebbe i mezzi e anche la visibilità. E verrebbe pure portato in palmo di mano da tutta l’intellighenzia politicamente corretta. Forse la controparte non riuscirebbe a reggere a lungo un urto mediatico internazionale capeggiato da un testimoniaI del genere.
Ma Stefano Gabbana preferisce testimoniare così la sua fede, con quell’umiltà che tanti, troppi cattolici non hanno.
L’intervista ai due grandi sarti, battuta dalle agenzie il16 gennaio 2002 e apparsa in un box su Il Giornale, non voleva essere altro che un po’ di “colore” in margine al vero “evento”: le sfilate del pret à porter maschile, collezioni autunno-inverno 2003.
E la posizione di Gabbana su un punto importantissimo e delicato della morale cattolica ne è uscita come il personale ghiribizzo di un artista eccentrico, uno che, a furia di frequentare il fru-fru delle mannequins e quell’ambiente stravagante e “trasgressivo” e fatuo per antonomasia che è il mondo della moda, si è messo in testala “provocazione” estrema, la trasgressione della trasgressione: l’ubbidienza alla Chiesa.
Invece si tratta, a mio avviso, di una testimonianza straordinaria proprio perché proveniente da un milieu che, di suo, dovrebbe essere più propenso al Gay Pride che al rosario, alla protesta chiassosa e volgare che al rammarico accorato, alla provocatorietà gratuita e non di rado blasfema che all’outing religioso. Lì, infatti, al massimo ci trovi neobuddhisti o new agers, non il “travaglio interno” di un credente perfettamente consapevole del contrasto tra i suoi desideri umani e un punto irrinunciabile della dottrina cattolica.
“La Chiesa dice che i figli devono nascere dall’amore di un uomo e di una donna”. E Stefano Gabbana non ama una donna.
Dunque, che fa? Niente, fa. Con dispiacere. Con dolore. Con “travaglio interno”. Ma non fa niente.
Porta il suo cruccio “molto personale” come una croce, la sua croce, senza organizzare campagne per costringere la Chiesa a “rivedere” certe sue posizioni (come se, poi, fossero “sue”) giudicate “retrive” solo perché in contrasto con le privatissime voglie di alcuni. No, Gabbana china il capo; con rincrescimento, sì, ma anche con rispetto. Così fanno, così dovrebbero fare, i credenti.
Giù il cappello, signori. E che sia griffato Dolce & Gabbana.
TIMONE N. 19 – ANNO IV – Maggio/Giugno 2002 – pag. 52 – 53
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