Nella terra dove il comunismo staliniano circolava anche nelle vene di tanti suoi abitanti, la Chiesa – in minoranza ma combattiva – ha dato vita a belle realtà che testimoniano i frutti della fede. Conosciamone alcune
Se c’è una città che è stata simbolo dell’Emilia rossa è Reggio Emilia. Benché storicamente in secondo piano rispetto alla sorelle maggiori e alto- borghesi Parma e Modena, il laicismo di stampo illuminista-massonico sfoggiò lì il primo Tricolore, nel 1797, mentre sul finire dell’Ottocento il socialismo attecchì fra le cattolicissime campagne come una scintilla in un fienile. Da Reggio Emilia provenivano non pochi dei delegati che a Livorno nel 1921 fondarono il Partito comunista italiano e sempre Reggio divenne più tardi la vestale del mito della Resistenza, dopo aver pagato il più alto tributo di sangue all’interno del triangolo rosso per quanto riguarda i sacerdoti uccisi dai partigiani comunisti. La città, o meglio la diocesi, del martirio del piccolo Rolando Rivi e di don Pessina, per citare due casi famosi. Dove nel dopoguerra era uso comune scansarsi o sputare per terra quando passava un prete, mentre una cortina invisibile divideva in due le comunità, da un lato il popolo delle Feste dell’Unità, dall’altro quello piccolo e bianco delle parrocchie. Si capisce come Guareschi, pur essendo parmense, volle ambientare in quelle terre il suo don Camillo, raccontando e sublimando l’aspetto umano e a tratti bonario, che pur non mancò, di quella contrapposizione sociale. Reggio Emilia, con la sua Bassa, la zona in pianura, dove un Pci agli inizi di stretta obbedienza staliniana ha ottenuto per decenni percentuali elettorali vicine al 70%, una realtà in cui un partito pesante e il suo braccio economico, le cooperative rosse, hanno occupato i gangli del potere, mutatis mutandis, fino a oggi.
Dove abbonda il peccato, per così dire, sovrabbonda però la grazia come ricorda san Paolo. Ed è forse per questa ragione che in una terra così difficile la Chiesa locale è stata ed è tuttora una delle più vivaci della regione. Nonostante le condizioni storiche poco favorevoli, il clero resta tutto sommato folto, anche se in là con gli anni, ma se c’è un dato che fa cogliere al volo una certa singolarità è quello dei diaconi permanenti: ben 102, con una trentina di aspiranti nei corsi propedeutici al diaconato, il numero più alto in proporzione fra tutte le diocesi italiane, a cui si possono aggiungere gli oltre mille ministri straordinari dell’Eucaristia. Dalla Chiesa reggiana sono uscite personalità di segno diverso fra loro, ma che hanno avuto parimenti un ruolo di primo piano nelle vicende ecclesiali nazionali – da don Giuseppe Dossetti al cardinale Camillo Ruini – in quelle del cattolicesimo politico – per esempio, Romano Prodi – o in quelle della storiografia e della pubblicistica cattoliche – da Vittorio Messori, anche se reggiano solo per i natali in diocesi, in quel di Sassuolo, ad Alberto Melloni.
Le “Case della carità”
Due sono le realtà religiose che si stagliano nella Chiesa reggiana, diventate polmoni di spiritualità di questa “anomala” diocesi ora in mano al vescovo Massimo Camisasca. La prima è quella delle Case della Carità, fondate nel 1941 da don Mario Prandi. Nato a Reggio nel 1910, don Prandi finì giovane prete in un paesino sperduto e poverissimo sull’Appennino, Fontanaluccia. Energico, carismatico, dal carattere spigoloso, diede una scossa alla vita della piccola comunità montana, recuperando la celebrazione delle Quarant’ore, dando impulso alla Confraternita del SS. Sacramento e all’amore per l’Eucaristia in generale. Di fronte ad alcune famiglie provate da figli con handicap fisico e psichico, in estrema difficoltà a gestirli, ebbe l’ispirazione di formare strutture in grado di accogliere gli ultimi degli ultimi. Una sorta di piccolo Cottolengo. Pensò questo servizio come una forma di “liturgia”: il suo punto di riferimento era l’Eucaristia, il sacramento dell’amore sommo che deve trovare espressione, per essere vissuto in modo autentico, in un amore concreto. Definiva le Casa della Carità, quindi, non come un ente di assistenza, ma come un ente di culto. Nato in una parrocchia dedicata a Santa Teresa D’Avila, ritrovatosi a Fontanaluccia in un’altra parrocchia dedicata alla Madonna del Carmelo, alle prime consacrate che lo seguirono don Prandi diede il nome di Carmelitane minori della carità. Era attratto profondamente dalla spiritualità carmelitana, come ricerca di Dio. «Noi cerchiamo Dio, non il povero» diceva ai suoi figli spirituali, «abbiamo solo scoperto che un po’ di povero, delle “pillole di povero” ogni giorno rendono più spedito l’incontro con il Signore…».
Oggi i consacrati sono circa 160 e comprendono le suore, i Fratelli della carità, ossia il ramo maschile, e laici che continuano la propria vita professionale nel mondo. Accanto a loro vi sono le famiglie – alcune di queste legate da un particolare vincolo alle Case – e centinaia di altri laici che aderiscono alla spiritualità di un’opera che ha preso il nome, nel suo complesso, di Congregazione mariana della Case della carità. Di Case se ne contano attualmente 28 in Italia in otto diocesi – Piacenza, Parma, Reggio, Modena, Bologna, Forlì, Vicenza e Roma – 14 in Madagascar, due in India, due in Brasile e una in Albania. Lì, persone con gli handicap più gravi trovano un calore e una luce che, chi ha potuto vederlo con i propri occhi lo può capire, non sono di questo mondo.
Movimento Familiaris Consortio
Mentre don Prandi negli anni ’40 e ’50 era impegnato con i sofferenti nella carne e nella psiche, contemporaneamente un altro prete reggiano iniziava un lavoro pionieristico, ma con le famiglie. Nato a Sant’Ilario d’Enza nel 1917, don Pietro Margini appena ordinato fu nominato curato della parrocchia di San Quirino di Correggio, dove si dedicò ai ragazzi anche come insegnante di religione nelle scuole. A partire dalla meditazione dell’enciclica Mystici Corporis di Pio XII e da riflessioni su quello che vedeva attorno a sé, verso la metà degli anni ’50 propose ai suoi giovani un ideale di “vita alta”. Nel ’57 nacque la prima comunità costituita da coppie di fidanzati e poi giovani sposi. In tempi in cui sembrava ancora robusto il tessuto delle parrocchie, del cattolicesimo di base, don Margini capì la portata dei mutamenti sociali in atto, con una lucidità che ricorda quelle che ebbe nello stesso periodo don Giussani. Intuì in particolare nella formazione di famiglie veramente cristiane la via per attraversare il deserto della secolarizzazione che stava per deflagrare. «La salvezza dei nostri tempi deve venire dalle famiglie» scriveva, «un tempo chi ha salvato la Chiesa sono stati gli ordini monastici… ciò che salva la Chiesa al tempo presente è la gloria delle famiglie sante».
Trasferito da Correggio alla sua natia Sant’Ilario, quelle coppie che aveva formato lo seguirono. Prese vita passo dopo passo il movimento Familiaris Consortio, un punto di riferimento, soprattutto nei decenni dello sbandamento e delle ideologie postconciliari, per chi cercava una dottrina e una ecclesiologia pienamente cattoliche. Le sue “cellule” sono comunità di famiglie che si riuniscono, spesso vivendo una a fianco all’altra in condominio o nella stessa via, prestandosi quel mutuo aiuto umano e spirituale che permette di mantenere, appunto, una “misura alta” della vita cristiana. Oggi sono 43, in provincia di Reggio, Modena, più una a Roma.
Assieme formano l’Associazione mariana di famiglie “Comunità delle Beatitudini”. Negli anni ’80 don Margini vide fiorire le prime vocazioni alla vita sacerdotale, da cui sarebbe nata la Comunità sacerdotale Familiaris Consortio, con presbiteri – oggi 37 – che sentono la chiamata a un ministero vissuto in forma comunitaria. Nel 1988, due anni prima della sua morte, vide realizzato un altro sogno: un centinaio di famiglie si consacrarono a Cristo per le mani di Maria, secondo l’insegnamento di san Luigi Maria Grignion di Montfort. Negli anni ’90 è nato poi il movimento giovani, circa 200 dai 15 ai 25 annil La Familiaris Consortio ha aperto anche tre scuole paritarie, tra Sant’Ilario e Reggio Emilia, una elementare, una media e un liceo. All’ultimo incontro dei movimenti per la Pentecoste in piazza San Pietro anche la famiglia di don Margini era ben presente. Uno dei frutti dello Spirito tanto importanti quanto ancora troppo poco conosciuti nella Chiesa italiana, oltre che emiliana.
IL TIMONE N. 125 – ANNO XV – Luglio/Agosto 2013 – pag. 28 – 29
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