L’Omero cristiano del XX secolo ha riproposto grandi valori: eroismo, fedeltà, sacrificio, amicizia, amore. La sua narrazione fa vedere la verità, riaccende la speranza contro lo scoraggiamento e incita a combattere la buona battaglia
Sono molti coloro che snobbano o comunque sminuiscono Il Signore degli Anelli (d’ora in poi SdA) considerandolo un libro fantasy. In realtà, questo suo capolavoro assoluto è un libro di epica e Tolkien è l’Omero cristiano del XX secolo. Ora, i confini tra l’epica ed il fantasy sono controversi: non mi avventuro a definire il secondo, bensì mi limito ad indicare alcuni elementi dell’epica.
La Garzantina di letteratura, sulla scorta per esempio di Aristotele, Tasso, Vico ed Hegel, definisce “epica” un genere letterario caratterizzato dalla narrazione di fatti eroici, leggendari o storici, nella quale la verosimiglianza non esclude l’elemento fantastico e meraviglioso.
Tutti questi elementi si ritrovano in SdA, che ha riproposto grandi valori, come appunto l’eroismo, la fedeltà, il sacrificio, l’amicizia, l’amore (vero), in una cultura che (come insegnava per esempio Brecht) doveva farne a meno. Sda emerge dai miasmi di una letteratura che ha rinunciato al Bello e al Vero precipitando nella bruttezza e nel relativismo, additando sempre più l’antieroe. L’opera tolkeniana narra appunto gesta di eroi (convincenti come quelli biblici, non artificiali come i supereroi dei fumetti: essi possono cadere nel male e devono attingere la maturazione interiore), prove da superare, regni da restaurare, creature nobili d’animo e che combattono contro signori del male e, in primo luogo, contro quel male che insidia il cuore di ognuno. Tolkien giudica la condizione umana alla luce di una teologia della storia, esercitando una lettura non ideologica bensì realistica: la natura umana è segnata da una “Caduta” che sempre espone ognuno al peccato perciò «il Nemico da battere è sì l’avversario malvagio (come i personaggi del Signore degli Anelli Sauron o Saruman) ma è soprattutto il male che si annida infido in ciascuno di noi» (Paolo Gulisano, J.R.R. Tolkien: mitologia e teologia della storia, in Communio, 179 [2001], pp. 85- 93, reperibile anche sul web). Male che appunto non è all’origine bensì introdotto da una colpa, non è un Principio contrapposto al Bene (come invece accade nei dualismi manichei).
In questo progetto gioca un ruolo importante l’uso del mito nel senso di Vico ed Eliot, non già come contrapposizione al reale, bensì come espressione di verità profonde per immagini, onde dare risposta alle questioni radicali sul senso dell’essere. Il mondo creato da Tolkien attinge il realismo della veromiglianza fino al dettaglio, realizzando quella che questo grandissimo scrittore chiama «sub-creazione». Infatti, con consapevolezza metafisica Tolkien sa bene che, propriamente parlando, solo Dio può davvero creare, cioè porre nell’essere le cose che prima non erano per nulla. Nondimeno l’uomo, immagine di Dio, può “sub-creare”, cioè esercitare quella partecipazione (come direbbe san Tommaso) al potere creativo divino che si esprime, per esempio, nell’invenzione dei mondi possibili della letteratura. Ed è soprattutto nel mondo di SdA che Tolkien raggiunge in modo mirabile i fini che attribuisce alla sub-creazione. Lungi dal perseguire una mera evasione ricreativa, la sua narrazione cerca la guarigione della conoscenza: con un’astrazione dal nostro mondo riesce a farcelo vedere meglio. Riesce a farci percepire la bellezza delle cose che ci sono abituali che, poste nel contesto narrativo drammatico, baluginano di nuovo, perchè nei momenti più bui e faticosi ciò che sostiene e conforta i personaggi sono cose semplici, come le «erbe aromatiche e un coniglio al ragù» o come la compagnia sincera, affettuosa e forte di un amico che aiuta lungo il cammino.
Soprattutto, riesce a farci «vedere le cose [il bene, il male, l’amore e la morte, ecc.] come siamo destinati a vederle» (sono parole di Tolkien), riesce in definitiva a farci vedere la verità, la Provvidenza all’opera nella storia (quella dei personaggi, ma anche dell’uomo in genere), la finalizzazione di quest’ultima verso una fine del mondo in cui ci sarà retribuzione per la giustizia e per l’ingiustizia, ci sarà un «lieto fine» frutto di un’Onnipotenza. In ciò Tolkien si modella su quell’Evangelo che riferisce la nascita di Cristo e la sua Resurrezione come lieto fine, che prefigura il lieto fine della storia, la sua seconda venuta alla fine dei tempi. Non c’è dunque disimpegno nel SdA (anche gli elfi non sono mere creature di fantasia, bensì rappresentano ciò che gli uomini potrebbero essere se coltivassero la virtù), bensì la riaccensione della speranza contro lo scoraggiamento e l’incitamento a combattere la buona battaglia, senza però cadere in quell’errore (gnostico) che fa pensare all’uomo di poter essere lui a redimere il mondo prima e senza che venga il Signore. Come dice Gandalf: «Altri mali potranno sopraggiungere, perchè Sauron stesso non è che un servo o un emissario. Ma non tocca a noi dominare tutte le maree del mondo, il nostro compito è di fare il possibile per la salvezza degli anni nei quali viviamo, sradicando il male dai campi che conosciamo».
Dossier:
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TOLKIEN E IL SIGNORE DEGLI ANELLI
IL TIMONE N. 102 – ANNO XIII – Aprile 2011 – pag. 46