Con la sua morte, Corti va ad occupare il posto che gli spetta nella letteratura italiana. È la giusta consacrazione del più grande scrittore cattolico del ’900. Uomo di fede granitica, è stato un campione dell’apologetica
Quando Eugenio Corti la sera del 4 febbraio è morto serenamente nella sua bella casa di Besana Brianza, forse avrà rivisto in pochi istanti la sua vita, un lungo nastro lucente dispiegatosi per 93 anni. E si sarà come per magia ritrovato nel freddo spaventoso della steppa russa, durante quella ritirata del 1943 che fu la tomba di decine di migliaia di soldati italiani. E avrà ricordato, il vecchio Eugenio, quel momento inevitabile in cui pensi che sia finita: ti rendi conto che le bombe e i micidiali katiuscia dell’esercito sovietico, oppure il gelo, o la mancanza di cibo, ti faranno morire lì, solo un altro corpo esanime fra i tanti che vedi intorno a te irrigiditi nella morsa del gelo.
Corti e la fede
Poteva finire così: il giovane sottotenente Corti morto in un luogo imprecisato della steppa, e di conseguenza: niente racconto della ritirata di Russia “I più non ritornano” (1947); niente “Gli ultimi soldati del Re”, racconto della sua militanza nell’esercito che risalì l’Italia per restare fedele alla monarchia; niente “Processo e morte di Stalin” (1961); niente saga di quella invenzione cortiana che sono i “racconti per immagini”: “La terra dell’indio” (1998) sulle Reductiones del Sudamerica, “L’isola del paradiso” (2000) sulla vicenda degli ammutinati del Bounty, e “Catone l’antico” (2005). Ma, soprattutto, niente “Il Cavallo Rosso”: il capolavoro assoluto, il romanzo di una vita, la consacrazione del pubblico – 29 edizioni – e della critica, con la Francia dei magazine letterari impazzita per Eugenio Corti e il suo “Le cheval rouge”, che lo fa paragonare a Tolstoj, a Pasternak, a Solzenicyn, a Tolkien. Leggendo questo elenco di nomi, vengono i brividi pensando che noi del Timone abbiamo vissuto accanto a lui, abbiamo ascoltato la sua voce, siamo stati ospitati con grande semplicità nella sua casa, accanto all’inseparabile e discreta moglie Vanda dei Conti di Marsciano. Se questa è la nazionale degli apologeti, Corti ne è stato il fuoriclasse indiscusso.
Dunque poteva non tornare dal fronte, e invece la Provvidenza aveva altri progetti per lui. E per tutti noi. Afferrò il giovane sottotenente Eugenio Corti, giunto a un passo dalla morte, e lo riportò a casa sano e salvo. Regalandoci non solo un grande cristiano, ma uno scrittore di livello mondiale.
Per parte sua, questo uomo aveva un segreto che ha fatto da filo rosso a tutta la sua vita, e che lo ha tenuto in piedi in quei terribili trentotto giorni di inferno ghiacciato: la fede. Corti promise a Dio che, se ne fosse uscito vivo, avrebbe dedicato l’intera esistenza alla buona battaglia. E il voto fu mantenuto fino alla sera del 4 febbraio 2014. Quella di Corti era una fede robusta, solida, autentica, totalizzante. La sua persona era “riempita” dall’adesione alla Chiesa cattolica e a quanto essa ci insegna. Una fede imparata dai genitori, dal parroco, andando a Messa, pregando, studiando il catechismo, abituandosi a leggere ogni fatto della giornata alla luce della fede. Se chiedevi a Corti «ma che cos’è la fede?», a differenza di tanti cattolici contemporanei, ti rispondeva senza tentennamenti: «La fede è l’adesione della ragione, mossa dalla grazia, alle verità rivelate da Dio, per l’autorità di Dio stesso che ce le rivela. La Sacra Scrittura e la Trazione raccolgono queste verità, che formano la fede oggettiva e immutabile della Chiesa». Questa chiarezza non è un dettaglio di poco conto, ma è il nucleo intorno al quale ruota l’intera vita di questo scrittore. Due note firme de il Timone – Paola Scaglione e Andrea Sciffo – hanno contribuito a far emergere negli anni la grandezza di questa poetica e di questo autore.
Corti e il Cavallo Rosso
Il romanzo di Corti è la realizzazione perfettamente riuscita in forma artistica di questa visione cattolica. Un libro nel quale la precisione maniacale per i fatti storici, la credibilità dei personaggi e della trama si intrecciano con disarmante naturalezza con una costante visione soprannaturale. Quando ne Il Cavallo Rosso si muore, non si diventa carne morta, ma si viene istantaneamente e letteralmente afferrati dall’angelo custode che ti porta in Cielo, e si cominciano a rivedere i volti delle anime che ci hanno preceduto. Il naturale e il soprannaturale coesistono, e lo scrittore – che è il testimone incaricato di raccontare e di spiegare il mondo ai lettori – te lo descrive con certezza incrollabile. Nel secolo in cui i più grandi romanzieri certificano che oltre l’uomo di carne c’è solo il nulla, Corti compie un atto di coraggio inaudito: ci dice che la vera vita è quella che attende tutti, con il suo snodo ineluttabile di un giudizio basato sulle nostre azioni. Così, il cumulo enorme di male che il romanzo racconta, le figure malvagie che lo popolano, i molti umili buoni cristiani vittime di questa immane ingiustizia: tutto trova senso nel fatto che l’esito della storia è soprannaturale.
Corti, la buona battaglia e una confidenza
La vita del cattolico è combattimento, è militanza. Corti non pensò mai che fare lo scrittore significasse estraniarsi dalla lotta. Non fu mai disertore. Innanzitutto nei suoi doveri familiari: nato il 21 gennaio del 1921, primo di dieci fratelli, Corti fece per anni l’imprenditore per proseguire l’opera di suo padre Mario, e Dio solo sa con quale rinuncia rispetto al fuoco della vocazione narrativa che già lo divorava. Ma soprattutto, fu tetragono difensore di principi irrinunciabili: quando nel 1970 l’Italia introdusse il divorzio, Corti si schierò senza esitazione con Gabrio Lombardi, Emanuele Samek Lodovici, Sergio Cotta, Augusto Del Noce, Enrico Medi, Giorgio La Pira e altri che si batterono per riaffermare l’indissolubilità naturale di ogni matrimonio. E così ebbe a scontrarsi con Giuseppe Lazzati (che pure Corti ammirava) e con i cattolici che votarono a favore del divorzio, come Sabino Acquaviva, Paolo Prodi, Tiziano Treu, Giuseppe Alberigo, Pietro Scoppola, Pierre Carniti, Raniero La Valle, Mario Pastore, Guglielmo Zucconi, Adriana Zarri, Carlo Caretto, Padre David Maria Turoldo. Costoro rimasero tutti sulla cresta dell’onda cattolica, riveriti e incensati fino ai nostri giorni. Corti e gli altri, sconfitti, scomparvero.
Qualche anno dopo, di fronte alla prospettiva di impegnarsi nello stesso modo per il referendum del 1981 sull’aborto, lo scrittore decise di restarsene nella sua casa di Besana. «Io – mi confidò sconsolato – avevo posto una sola condizione per battermi: tappezzare l’Italia di manifesti che mostrassero le foto raccapriccianti di che cosa succede a un feto abortito. Per convincere la gente che l’aborto è sbagliato, bisogna mostrare alla gente che cos’è l’aborto. Mi risposero che questo era impossibile, e che sarebbero stati usati messaggi positivi e foto di bambini sorridenti. Capii in quel momento che la battaglia era persa in partenza, e mi ritirai in buon ordine. E così fu».
Corti e la Chiesa
Insomma, Corti fu un uomo dalla schiena diritta. Fu un anticomunista e un controrivoluzionario. Che non mancò di denunciare la drammatica crisi in cui la Chiesa stava scivolando da mezzo secolo. Lo fece con il suo saggio “Il fumo nel tempio” (1996), che alludeva alle terribili parole di Paolo VI e che fotografa in maniera lucida e impietosa quel capovolgimento in atto in base al quale più un cattolico restava fedele alla dottrina, e continuava a fare e pensare ciò che aveva sempre fatto e pensato, e più veniva messo in un angolo; e rimpiazzato da personaggi che un tempo sarebbero stati sospettati di eresia.
Questa fu, diciamocelo, la sorte dello stesso Corti: sempre più amato dai lettori di tutto il mondo, dai giovani, da alcuni critici liberi. Dimenticato da chi – cattolico e non – predilige il compromesso e la resa.
Per fortuna adesso il dottor Corti, con la sua barba curata alla Sean Connery, se la ride tutto contento godendosi il sole del Paradiso. E il gelo della steppa russa è, ormai, solo un pallido ricordo.
IL TIMONE – Marzo 2014 (pag. 14 – 15)
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