Le teorie evoluzioniste, ancora tutte da dimostrare nel campo della scienza, creano seri problemi in sede filosofica. Vediamone alcuni.
Il termine evoluzionismo deriva dal latino evolvere che significa “muoversi in tondo” e indica la teoria secondo cui la realtà progredisce costantemente, evolvendosi dalla materia inerte a quella vivente, dalla vita vegetativa alla vita cosciente, dalla barbarie alla civiltà. Le teorie evoluzioniste si sviluppano soprattutto nel XIX secolo, in un clima culturale caratterizzato dal positivismo, e riguardano l’ambito biologico, antropologico e cosmologico.
I positivisti pensavano di poter ridurre tutta la conoscenza al paradigma della conoscenza scientifica: è conoscibile scientificamente solo ciò che è sperimentabile, è sperimentabile solo il dato positivo di cui ci può essere esperienza sensibile.
Il concetto di evoluzione, presentato come scientifico e positivo, viene utilizzato in questo contesto per spiegare la nascita dell’universo e della vita in sostituzione al concetto di creazione, metafisico e non sperimentabile. Nel 1809 Jean-Baptiste Monet de Lamarck (1744-1829) pubblica la sua Filosofia zoologica in cui sostiene che il passaggio da una specie all’altra dipende dall’adattamento all’ambiente determinato dall’uso o dal disuso di certi organi e dall’ereditarietà dei caratteri acquisiti. Secondo l’ipotesi di Lamarck, la funzione crea l’organo.
Nel 1859 Charles Darwin (1809-1882) pubblica l’opera L’origine delle specie dalla selezione naturale in cui propone l’ipotesi evoluzionista fondandola sui concetti di “lotta per la vita” e di “selezione naturale”: la natura tende a generare un numero di viventi molto superiore ai mezzi di sopravvivenza disponibili, solo i più “adatti” riescono a sopravvivere grazie alle caratteristiche che nella lotta per l’esistenza si rivelano dominanti e che trasmettono ai loro discendenti; tutte le specie derivano da questo processo di mutazione/selezione casuale e meccanicistico che esclude qualsiasi finalismo.
Con Herbert Spencer (1820-1903) l’evoluzionismo si allarga all’ambito culturale e cosmologico. Secondo Spencer il compito della filosofia è di interpretare tutta la realtà alla luce della legge dell’evoluzione che è la legge fondamentale della scienza, l’evoluzione è un processo necessario che porta la materia “da una omogeneità indefinita e incoerente a una eterogeneità definita e coerente, mentre il movimento conservato subisce una corrispondente trasformazione” secondo un progresso anch’esso necessario. A proposito della teoria di Lamarck si può osservare che se non ci sono difficoltà logiche nell’ammettere variazioni all’interno di una specie, risulta invece impossibile pensare che la funzione, cioè l’esercizio, crei l’organo: la funzione suppone l’organo non lo produce; inoltre la teoria di Lamarck non tiene conto del fatto che, alla luce delle conoscenze attuali, i caratteri acquisiti non vengono ereditati.
Riguardo la teoria di Darwin bisogna rilevare che la selezione non crea nulla, non determina le variazioni, ma sceglie tra quelle già esistenti. Ma anche supposto che si determini una variazione che renda più adatto un certo soggetto alla sopravvivenza, è possibile che essa compaia di colpo come struttura complessa, come organo già formato e correlato agli altri? E se non è così, in che modo un abbozzo rudimentale può risultare vantaggioso al suo portatore?
Le tesi di Spencer sono espressione di una metafisica materialista e non di una teoria scientifica, perché le nozioni di movimento e di materia che vengono utilizzate sono nozioni metafisiche.
I problemi posti dall’evoluzionismo possono essere così sintetizzati:
1. Un vivente può sorgere dalla materia inorganica con un processo naturale, cioè prescindendo da un intervento creativo della causa prima?
2. Un vivente può essere generato da un vivente di specie diversa?
Nel rispondere a questi problemi bisogna distinguere tra aspetto scientifico e aspetto filosofico della teoria dell’evoluzione; il problema filosofico non è quello del come, ma del perché. La scienza da i fatti e ne ipotizza le leggi, ma non può dare l’interpretazione perché non è il suo compito e non ne ha i mezzi. A questo proposito Sofia Vanni Rovighi osserva: “Forse che una materia vivente dotata di virtualità a produrre specie diverse non esige una causa del suo essere e del suo divenire come la esigerebbero specie che comparissero perfette sulla terra?”. E riguardo alla generazione spontanea Franco Amerio afferma: “…Tanto poco la generazione spontanea elimina Dio che i dotti del medioevo, i grandi maestri della teologia,…ammettevano la generazione spontanea come tesi comune: essi pensavano che i piccoli animali viventi, che si originano nei fenomeni putrefattivi, fossero proprio un caso di generazione spontanea”. Il mondo per la sua contingenza ha bisogno di una causa prima sia che il suo sviluppo avvenga in base al fissismo (ipotesi secondo cui le specie rimangono immutate nel corso del tempo) o avvenga in base all’evoluzionismo, anzi, come nota Amerio, “ancor più evidentemente in questo secondo caso, perché …il senso progressivo dell’evoluzione – da viventi imperfetti e semplici a viventi sempre più perfetti e complicati – mette in primo piano il postulato finalistico, cui non si può soddisfare col caso”.
L’unico problema particolare si pone a proposito dell’origine dell’uomo perché il principio vitale dell’uomo (ciò che chiamiamo anima) è sussistente, cioè non dipende nel suo essere dal corpo di cui è forma: l’anima incomincia ad essere nel corpo, ma non dal corpo (come è dimostrato dal fatto che l’uomo è capace di attività che non sono riducibili alla pura dimensione biologica); il sorgere dell’anima non è spiegabile con il trasformarsi della materia, essa è un di più rispetto alla materia, un di più che sorge dal nulla; poiché solo Dio può trarre l’essere dal nulla, l’anima è creata dal nulla nel momento in cui va ad informare il corpo.
RICORDA
“È significativo che s. Tommaso, prima di esporre le sue cinque vie, si ponga l’obiezione della presenza del male nel mondo e va notato che, a proposito della quinta via, egli non parte da un supposto ordine universale, ma da quello di alcune cose (aliqua quae cognitione carent). Ascesi a Dio dal finalismo indubbio che, sia pure parzialmente, cogliamo nel mondo dell’esperienza, dobbiamo concluderne che Dio deve avere delle ragioni (per noi misteriose) per permettere il male. Addirittura s. Tommaso afferma, in modo icastico: ‘Se c’è il male, Dio esiste’, perché il male suppone il bene e questo non esisterebbe, se non ci fosse un Creatore onnipotente e buono. In altre parole, il male prova la precarietà del reale che, quindi, non può essere l’Assoluto che si autospiega”.
(Nello Venturini, Perché il male?, Rubbettino, Soneria Mannelli (CZ) 2000, pp. 97-98).
BIBLIOGRAFIA
Giovanni Paolo II, Salvifici doloris, 1984.
Francesco Botturi, Desiderio e verità. Per un’antropologia cristiana nell’età secolarizzata, Massimo, Milano 1985.
Carlos Cardona, Metafisica del bene e del male, Ares, Milano 1991.
Tommaso d’Aquino, Quaestio disputata De Malo.
Nello Venturini, Perché il male?, Rubbettino, Soneria Mannelli (CZ) 2000.
IL TIMONE N. 17 – ANNO IV – Gennaio/Febbraio 2002 – pag. 26 – 27