Se vuole essere felice e realizzarsi compiutamente, una donna deve sviluppare i talenti della propria sua femminilità. Che nel nostro tempo sono minacciati da un relativismo lontano e avverso alla realtà umana.
Tra i tanti pericoli di questa modernità che si propone di ribaltare in modo radicale la visione tradizionale e sacrale della vita che, bene o male, era sopravvissuta fino a tempi recenti anche nel nostro Occidente, ve n’è uno che a me sembra il peggiore e il più destabilizzante. Ed è quello di attentare alle radici stesse degli esseri umani che, come sappiamo, sono simili nell’essenza e, dunque, nella dignità, ma diversi nel genere, essendosi, fin dalle origini, divisi in maschio e femmina.
Se rileggiamo le pagine della Genesi su questo tema capiamo che il progetto divino è preciso: l’umanità è costruita su questa dinamica uomo-donna. Una evidente diversità, che ha tuttavia come obiettivo una complementarità, cioè una convergenza, che tende verso uno scopo: dare origine alla vita e poi perpetuarla. La vita, dunque, è destinata ad avere la sorgente continua proprio in questo incontro di due diversità che danno origine ad una unità, il figlio, in un processo senza sosta che si perpetua di generazione in generazione. Un processo che non è solo fisico ma che, come fa intuire la Scrittura quando usa il termine di «compagna, simile a lui», include molto di più: una complementarietà degli affetti, del cuore, uno scambio tra persone simili ma non identiche.
Questo dato di base che fonda l’umanità, così come la conosciamo, è presente presso ogni popolo e cultura.
Abbiamo citato la Genesi, perché per noi cristiani è il punto di riferimento fondamentale. Ma, in realtà, esso è intuibile anche al di fuori di una dimensione strettamente religiosa, riflettendo con un po’ di profondità sulla natura e sulla dinamica della vita. Maschio e femmina sono, dunque, i due punti fermi originari attorno ai quali tutto il resto si muove e dal quale tutto deriva, Perchè questo avvenga in modo ordinato e corretto, occorre che tali punti siano precisi e chiari. E così è stato, in tutte le società tradizionali le quali, pur con visioni religiose differenti, hanno sempre difeso questa prospettiva considerata fondamentale e per questo spesso sacralizzata.
La modernità, dicevamo, tenta oggi di scardinarla alla radice, cercando di convincerci che l’identità di genere, cioè il fatto di essere uomo o donna, sulla base della propria natura di maschio o di femmina, non sarebbe poi così importante. Un relativo, dunque, e non un assoluto. Un dato che si può manipolare, correggere, trasformare, un elemento con il quale si può in qualche modo “giocare”, contaminando insieme maschile e femminile. Una prospettiva che, sulle prime, può sembrare interessante, addirittura affascinante. Jung stesso, del resto, diceva che dentro a ciascuno di noi albergano i due principi, quello maschile che ha chiamato animus, e quello femminile, anima. E che è bene, per raggiungere una personalità piena e matura, che l’uomo si apra anche alla dimensione dell’anima e la donna a quella dell’animus. Un arricchimento, dunque, che tuttavia parte da una identità certa. Una elasticità che allarga gli orizzonti della personalità, che facilita il dialogo tra uomo e donna, ma che non ingenera confusioni di ruoli.
Che cosa c’è, dunque, che non va nella prospettiva moderna? È l’ideologia che vi è sottesa, quella stessa che sta alla base di tutti gli altri problemi attinenti a quella che viene chiamata la “questione antropologica”. L’ideologia razionalista, che non vuole riconoscere limiti alla propria libertà e dunque alla propria azione; che, rinunciando ad una visione sacrale della vita e dell’uomo, non sa più leggere le leggi iscritte nella sua propria natura; che, facendo della scienza il suo nuovo idolo, non pone a quest’ultima alcun limite etico.
Per questo la Chiesa reagisce e difende la prospettiva cristiana, ma più in generale la prospettiva che discende dalla legge naturale. Perché, aiutata anche dalla Rivelazione, la Chiesa conosce bene l’uomo e la donna, la loro vocazione più profonda, il destino al quale sono chiamati. E per questo sa anche quali conseguenze negative derivano dalle ideologie di ogni sorta sempre pericolose, perché lontane dalla vera realtà umana.
Dicevamo, dunque, dell’importanza di una identità precisa e, restringendo il campò, della identità femminile. Perché? Perché è attorno ad essa che si costruisce la personalità di una donna e si operano di conseguenza anche tutte le scelte pratiche. Il riconoscimento della propria identità femminile e l’accettazione di essa sono fondamentali per un equilibrio pieno della persona. Un difetto di identità significa confusione, insicurezza, angoscia esistenziale, scelte sbagliate e, di conseguenza, grandi sofferenze.
È ovvio che tutto questo verrà vissuto dalle donne di oggi in forme diverse da quelle di una donna dei secoli passati. Gli ambiti del suo impegno si sono allargati, includendo anche la scelta professionale, spesso importante. Ma un conto è allargare gli orizzonti della propria personalità e un conto è sacrificarvi, imitando per esempio modelli maschili, la propria identità profonda. Oggi questo rischio è forte, come dimostrano i tanti matrimoni che falliscono, quelli che non si ha il coraggio di celebrare, quei bambini che si fanno proprio all’ultima ora dell’orologio biologico e quelli che, non fatti o abortiti, si rimpiangeranno per sempre. Tutti sintomi di un disagio che spesso affonda le proprie radici proprio in una mancanza di chiarezza su ciò che è meglio scegliere, a causa di una incapacità di cogliere le esigenze profonde del proprio essere femminile.
Che cosa fare, allora? Le provocazioni della modernità, e i numerosi guasti che sono sotto gli occhi di tutti, un vantaggio l’hanno avuto. È quello di averci fatto capire meglio che – se una corretta identificazione con il proprio sesso e con tutto quello che ciò comporta, in termini di personalità globale, è di solito naturale e spontanea – tuttavia è anche un dato sul quale si può lavorare per migliorare, maturare, portare a compimento tale identificazione. È esperienza recente, per esempio, il lavoro terapeutico che viene offerto a omosessuali maschi e femmine, che avvertano il disagio della loro situazione e desiderino approfondirne le cause, tra le quali c’è proprio anche una scorretta o insufficiente identificazione con il proprio sesso, una immaturità nello sviluppo progressivo della propria identità maschile o femminile.
Tutto ciò incontra naturalmente la disapprovazione, spesso urlata, di chi ha aderito a quella ideologia di cui prima parlavamo. Ma i buoni risultati che si ottengono fanno capire che è stata aperta una strada utile ad evitare molte sofferenze.
Ma, al di là dei casi più gravi, che richiedono un aiuto specifico, credo che tutto quello che abbiamo cercato di dire possa essere utile anche a ciascuna di noi, a cominciare da me, si intende, per fare un esame di coscienza. Per comprendere quanto abbiamo davvero capito e vissuto della nostra femminilità e quanto ancora possiamo fare per stare meglio con noi stesse ma anche per rendere più felice chi ci sta intorno.
«Le risorse personali della femminilità non sono certamente minori delle risorse della mascolinità, ma sono solamente diverse. La donna dunque – come, del resto, anche l’uomo – deve intendere la sua «realizzazione» come persona, la sua dignità e vocazione sulla base di queste risorse,. secondo la ricchezza della femminilità, che ella ricevette nel giorno della creazione e che eredita come espressione a lei peculiare dell”‘immagine e somiglianza di Dio”».
(Giovanni Paolo II. Lettera apostolica Mulieris dignitatem, 15 agosto 1988).