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13.12.2024

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Filosofia politica. L’impossibile neutralità morale dello Stato
3 Novembre 2014

Filosofia politica. L’impossibile neutralità morale dello Stato

 
Per la corrente liberale prevalente, l'autorità deve prescindere da qualsiasi concezione del bene e lasciare che in materia di aborto, eutanasia, fecondazione artificialwe ognuno decida secondo la propria concezione.  è una visione criticabile per diversi motivi. Eccoli di seguito…
 
Ogni volta che si discute di scelte di bio-politica (aborto, eutanasia, fecondazione artificiale) o di filosofia politica relativamente ai presunti "nuovi diritti" (matrimonio tra persone dello stesso sesso, cambiamento di sesso, e così via), tra le voci che intervengono nella discussione pubblica si leva anche quella di una certa corrente interna al liberalismo, che non è l'unica  ma è maggioritaria. Essa sostiene che lo Stato dev'essere moralmente neutrale e non deve privilegiare nessuna concezione morale, lasciando che ogni persona persegua la propria particolare concezione morale, purché non la imponga  agli altri e non li danneggi in qualche modo.
A queste considerazioni alcuni aggiungono che la neutralità etica dello Stato è uno dei requisiti necessari della laicità dello Stato.
Ora, tralasciando la questione specifica della laicità (al riguardo posso rinviare ai miei due articoli La laicità dello Stato, parte I, "il Timone", 94 (2010) pp. 30-31 e La laicità dello Stato, parte II , "il Timone", 95 (2010), pp. 30-31, cfr. www.iltimone.org).mi soffermo qui sulla problematicità  più generale poc'anzi esposta.
In effetti, se il requisì o della neutralità dello Stato significa che lo Stato nei riguardi dei cittadini deve essere imparziale, trattando tutte le persone con le stesse regole, senza compiere discriminazioni, allora la neutralità è un principio sacrosanto e un grande pregio dello Stato liberale.
Certo, va sottolineato che discriminare significa trattare situazioni identiche in modo differente. Per esempio, trattare in modo diverso i bianchi e i neri è una discriminazione, perché essi sono i esseri umani e le loro differenze sono accidentali. Perciò, ogni persona deve avere gli stessi diritti umani (cioè i diritti che spettano all'uomo in quanto è uomo) degli altri. Le differenze che si possono ammettere sono relative alle funzioni dei singoli (per esempio, il Presidente della Repubblica ha il diritto di concedere la grazia, mentre un privato cittadino no). Ma trattare in modo diverso situazioni, relazioni e sodalizi umani tra loro diversi (oer esempio, uk rapporto potenzialmente generativo uomo-donna, e quello non generativo uomo-uomo oppure donna-donna) non è discriminazione, bensì è necessario per essere giusti.Ma il concetto di neutralità che predomina nel liberalismo è un altro, è quello esposto all'inizio di questo articolo.
 
I beni per lo Stato liberale: convivenza, giustizia e libertà
In realtà, l'autorità politica deve esprimersi sul bene e su che cosa sia lecito e che cosa non lo sia, e deve giudicare, nel novero delle azioni non lecite, quali siano tollerabili e quali invece vadano vietate a tutti: il suo ruolo morale, anche se può non piacere, è essenziale e ineludibile.
Così, sono già molti gli autori (alcuni esempi in bibliografia) che hanno messo in luce diversi presupposti morali, per nulla eticamente neutrali, di questa prospettiva liberale. Qui, in termini molto stringati, possiamo almeno dire che i beni morali valorizzati e protetti dallo Stato liberale sono (come minimo) la convivenza pacifica, la giustizia e la libertà individuale.
 
I divieti legali implicano una concezione del bene
Perlomeno lo Stato dimostra di non essere eticamente neutrale non appena legifera su qualcosa e, soprattutto, quando formula dei divieti: legiferare significa presupporre che la convivenza pacifica sia un bene rispetto all'anarchia o rispetto alla legge del più forte. E vietare atti come ad esempio l'assassinio, la tortura e la rapina presuppone che siano beni la tutela della vita delle persone, la loro integrità fisica e la loro proprietà. Già solo se lo Stato vieta il furto, la tortura e l'assassinio, lo fa sulla base di una qualche concezione morale, secondo la quale queste pratiche sono dei mali morali.
Si può ribattere che lo Stato vieta queste condotte solo perché sono dannose, non perché le ritenga dei mali morali. Tuttavia, perché non dovremmo danneggiare gli altri e perché lo Stato dovrebbe essere autorizzato a vietarci di farlo? A che titolo lo Stato lo può giustamente impedire? O si dice, come fa l'etica utilitarista, che produrre un danno è moralmente malvagio se aumenta la disutilità collettiva – ma in questa prospettiva siamo già ragionando all'interno di un discorso morale e non neutrale (l'utilitarismo è appunto una concezione morale) – oppure l'altro motivo per poter affermare che non dobbiamo danneggiare gli altri è che talvolta farlo è malvagio. Talvolta è malvagio, perché ci sono diverse situazioni in cui alcuni uomini danneggiano altri senza commettere una malvagità e perciò con il beneplacito della legge:
un manager che licenzia un impiegato lo danneggia con il beneplacito della legge perché l'atto del licenziamento (se è giusto) non è un male morale; se un soggetto vince senza favoritismi un concorso danneggia chi aspirava allo stesso posto e, anche qui, lo fa senza che lo Stato glielo impedisca.
Inoltre, anche il silenzio (volontario) dello Stato sulla immoralità di certi comportamenti equivale ad affermare che quegli atti sono moralmente leciti o moralmente indifferenti o moralmente tollerabili (l'eccezione a questa equivalenza si ha nei casi in cui lo Stato non riesce a valutare certe condotte, azioni, e così via ed è per questo che non si esprime).
 
La legge morale naturale come fondamento
Visto, dunque, che lo Stato non può riuscire ad essere moralmente neutrale, nemmeno se cerca di esserlo, quale dovrebbe essere la prospettiva etica a cui dovrebbe far riferimento?
Lo Stato non crea il bene e il male, come nelle prospettive del cosiddetto Stato etico, bensì dev'essere eticamente ancorato alla legge morale, cioè all'insieme di quei principi morali (“non assassinare", "non torturare”, "non derubare”, "non frodare”, e così via) che dovrebbero valere per ogni uomo e in ogni cultura: quei princìpi che ­ questo è fondamentale – sono accessibili ad ogni essere umano con la sola ragione (anche se essi non sempre vengono di fatto colti, per vari motivi su cui non possiamo qui soffermarci).
 
Nessun paternalismo
Quanto abbiamo fin qui detto non vuoi dire che l'autorità politica debba sempre vietare tutto ciò che giudica malvagio o debba imporre tutto ciò che giudica buono: deve vietare solo gli atti che danneggiano gravemente e significativamente gli altri (per un approfondimento ed un chiarimento di questa questione rimando ai miei articoli sulla laicità già citati).
Solo alcuni principi della legge naturale sono politicamente rilevanti, cioè solo quelli che riguardano direttamente e significativamente il bene comune: esempio evidente è il principio di legge naturale «non assassinare».
Riguardo a ciò c'è analogia tra Tommaso d'Aquino e Kant: per il primo, la legge umana non deve vietare tutti i vizi, giudicati tali in rapporto alla legge naturale, bensì quelli gravemente dannosi per gli altri; per il secondo c'è una distinzione tra morale e diritto, tra peccato e reato .•

Per saperne di più …
Antonella Corradinl, Problemi metodologici nel proceduralismo di John Rawls, in G. Dalle Fratte (a cura di), Concezioni del bene e teorie della giustizia. Il dibattito tra liberali e comunitari in prospettiva pedagogica, Armando, 1995, pp. 38-41.
Antonio Da Re, Il bene e il giusto, in R. Gahl (a cura di), Etica e politica nella società del duemila, Armando, 1998, pp. 45-64.
Gabriele De Anna, Azione e rappresentanza. Un problema «meta fisico» del liberalismo contemporaneo, Edizioni Scientifiche Italiane, 2012,pp. 11-13, 122-127, 154-157.
Martin Rhonhelmer, L'immagine dell'uomo nel liberalismo e il concetto di autonomia: al di là del dibattito tra liberali e comunitaristi, in I. Yarza (a cura di), Immagini dell'uomo. Percorsi antropologici nella filosofia moderna, Armando, 1997, pp. 95-133.
Michael Sandel, II liberalismo e i limiti della giustizia, Feltrinelli, 1994, pp. 40-41.

 
Il Timone – Novembre 2014

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