La croce. Centro della nostra fede e fonte della nostra salvezza. La crocifissione di Gesù non è stata la semplice esecuzione di una condanna, conseguenza della volontà di capi giudei o romani. E nemmeno è stata frutto di un destino a cui Gesù non avrebbe potuto sottrarsi con la sua volontà. Gesù sa di andare incontro alla croce, e la sceglie. Non la sceglie per amore del dolore, come possiamo bene capire dal pianto nel Getsemani: la sua supplica chiede al Padre di allontanare da sé quel calice. Non ha progettato la croce per se stesso; ma, posta davanti come unica via di salvezza per gli uomini, egli la fa sua.
Il progetto del Padre non è la croce in sé, ma la nostra salvezza. La croce è il volto che la nostra salvezza assume nella storia. Se un mio fratello venisse travolto e schiacciato da un peso che con le sue forze non riesce a sollevare, non mi sottraggo dal ferirmi le mani pur di salvarlo: per amore colgo quella piccola missione pur non avendo avuto, per me, il progetto di ferirmi; non posso affermare che ho scelto quelle ferite in se stesse. Ho scelto invece la salvezza di quel fratello, salvezza che in tale circostanza passava attraverso quelle ferite; mi sono fatto carico della sua situazione e l’ho fatta mia.
San Paolo scrive: «Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture» (1Cor 15,3). La croce ha dunque in sé questi significati: espiazione, riparazione, redenzione. Espiazione perché Cristo paga sulla croce il prezzo di tutti i peccati passati, presenti e futuri commessi da tutti gli uomini: «Non vi è, non vi è stato, e non vi sarà alcun uomo per il quale Cristo non abbia sofferto» (DS, 624). Tramite la sua natura umana poté soffrire, tramite quella divina poté farlo infinitamente. Non riusciremo mai a comprendere la pienezza della sofferenza di Gesù, soprattutto nel suo risvolto spirituale. Possiamo però entrare in comunione con essa tramite il dono dell’eucaristia, da lui misticamente istituita durante l’ultima cena, e da lui perennemente celebrata sugli altari. La Croce di Gesù è sacrificio, e questo sacrificio è lo stesso di quello della Messa.
La Croce è anche, come abbiamo detto, riparazione, perché espiando i nostri peccati, Cristo li cancella. Fin dal battesimo nel Giordano, Giovanni il Battista indica Gesù come l’agnello sacrificale perfetto che paga per i nostri peccati: «Ecco l’Agnello di Dio, ecco colui che toglie i peccati del mondo» (Gv 1,29). A volte qualcuno s’interroga: può qualcuno saldare il debito (verso Dio) di qualcun altro? Nell’economia della salvezza voluta dal Padre, sì. Nelle relazioni terrene non è così: se entro in una cristalleria piena d’oggetti preziosi e per sbadataggine ne faccio cadere alcuni, che a loro volta ne fanno cadere altri, combinando un disastro a catena, non posso che aspettarmi di vedermi comparire davanti il padrone che mi dice: «Adesso non te ne vai di qui se non paghi tutto fino all’ultimo centesimo», e a me, specie se sono povero in canna, non rimane che la prospettiva della galera o di rimanere schiavo di quel padrone per sempre. Solo una cosa potrebbe salvarmi: che il figlio di quel padrone, combinazione, fosse il mio più grande amico, e mi amasse in modo particolare; e allora, ricco di tutta la sostanza del padre, potrà dire: «Non ti preoccupare, padre, pago io per lui». Chi non sarebbe grato di un gesto così? Eppure questo è il gesto compiuto da Gesù verso di noi, per il quale, spesso, molti non ringraziano nemmeno, escludendosi da quell’eucaristia che, oltre ad essere comunione col suo sacrificio, è anche rendimento di grazie.
Abbiamo detto che la Croce è anche redenzione: cancellando i nostri peccati Cristo ci salva. Com’è possibile sostenere che Gesù salva tutti e nello stesso tempo affermare che non tutti si salvano? Mi si permetta un’ultima metafora: un gruppo di minatori rimane imprigionato nelle viscere di una miniera, nel buio più completo non sanno nemmeno da che parte scavare; sono destinati a morire lì. Ma un loro compagno rimasto all’esterno, accortosi della situazione, si precipita con badile e piccone contro la roccia ed i cumuli di terra che occludono la via verso la salvezza. Lavora in modo tremendo per ore, affaticandosi molto e facendosi male, ma alla fine raggiunge il gruppo e dice: «Ecco la luce, venite fuori, siete salvi». Quella salvezza non è forse per tutti? Eppure parte di loro sceglie di rimanere assurdamente nel buio e nel freddo, rifiutando la vita, rifiutando cioè di salvarsi. Solo il gruppo che segue il coraggioso minatore si avvia verso la luce. Quel minatore, come si è capito, è Gesù. Quel manipolo di persone sporche che lo segue, quella piccola compagnia che da un lato gioisce e dall’altro, con le lacrime agli occhi, continua a gridare verso i fratelli rimasti dentro perché non si rassegna a non vederli salvati, è la Chiesa.
IL TIMONE – N. 52 – ANNO VIII – Aprile 2006 – pag. 61