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3.12.2024

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Fukushima. Il folle volo della modernità
31 Gennaio 2014

Fukushima. Il folle volo della modernità


 

 


Da molte settimane un’intera nazione sta lottando per “domare” una centrale nucleare fuori controllo. Accade nell’Anno del Signore 2011, a Fukushima, in Giappone, in una delle nazioni tecnologicamente più avanzate del pianeta. Le notizie arrivano frammentarie e contraddittorie, impossibile tracciare un quadro preciso della tragedia: all’inizio le autorità per la sicurezza nucleare hanno provato a minimizzare, sostenendo che si trattasse di un’emergenza molto meno grave rispetto a quella che si è verificata nel 1986 a Chernobyl. Di giorno in giorno la scala di allarme si è progressivamente aggravata, i bollettini redatti dalle autorità si sono fatti sempre più preoccupanti, per poi diradarsi e sfumare in un silenzio imbarazzato e carico di incognite. Non sappiamo né quanti tecnici siano morti nel tentativo eroico di raffreddare il reattore, né se alla fine verrà scongiurata la fusione del nocciolo, né quante radiazioni si diffonderanno. Di una sola cosa però siamo certi: la situazione non è sotto controllo.

Il mito del controllo totale della realtà
È evidente che qui il nodo da sciogliere non è (soltanto) quello della sicurezza del nucleare, e della necessità o meno di farvi ricorso: una questione con risvolti tecnici molto complessi che qui non vogliamo affrontare.
Il punto è un altro, più profondo. E cioè se l’uomo possa dirsi in grado di controllare in maniera totale il mondo che lo circonda. Tutte le tecniche di risk analysis sono ovviamente utili, e possono ridurre in modo significativo i pericoli che ogni attività umana comporta. Ma un conto è dire che si può cercare di prevedere gli incidenti, e un conto è pensare o lasciar credere che si possa eliminare ogni pericolo. Per quanto appaia assurdo e infantile, il pensiero tecnico nel quale siamo immersi si fonda proprio su questa “mistica” della sicurezza. A posteriori, ogni catastrofe viene analizzata nei minimi particolari, in modo da poter giungere alla sua spiegazione tecnica: ed ecco che il muro della centrale nucleare di Fukushima aveva un’altezza adeguata per uno tzunami di una certa potenza, ma che nessuno poteva prevedere – si dice – una potenza della natura così devastante. Ergo, sarebbe bastato fare un muro più alto.
A pensarci bene, è una spiegazione che non spiega niente. O meglio: che mette a nudo l’assoluta relatività di ogni strumento di controllo della realtà e del futuro. Non c’è nulla di male nel riconoscere questo limite insuperabile della natura umana. E non se ne deve nemmeno trarre la conseguenza, assurda, di rimanere paralizzati dalla paura che qualche cosa possa andare storto. Agire umano e rischio sono elementi inscindibili, che tuttavia impongono scelte morali ben precise, non essendo lecito, ad esempio, correre rischi sproporzionati o inutili. Percorrere in auto il tragitto casa-lavoro, salire su un volo di linea, partecipare a un’azione di guerra, costruire una centrale nucleare, sono tutte azioni che comportano un certo pericolo. Si tratta di verificare se e quando ciascuna di esse sia utile e necessaria. Ma il mito della tecnologia onnipotente vuole nascondere questa elementare verità, promettendoci la perfetta eliminazione del rischio.

Il mito del miglioramento continuo dell’umanità
Nella vicenda della centrale nucleare giapponese si è detto: l’incidente è accaduto perché l’impianto di Fukushima è sorpassato, adesso le centrali si costruiscono in modo diverso. Anche qui vale un’osservazione di logica elementare: quando quell’impianto fu realizzato, furono adottate le migliori tecnologie dell’epoca, che a loro volta potevano essere esibite come straordinariamente sicure rispetto alle precedenti. Ma questo significa che anche le tecniche costruttive oggi ritenute più all’avanguardia saranno giudicate ridicole e intollerabili fra dieci o vent’anni. La verità è che non c’è nulla di più vecchio della tecnologia. Le verità morali, o filosofiche, o logiche restano immutabili nel tempo, mentre la scienza è sottoposta a una continua trasformazione che comporta, talvolta, il rinnegamento delle certezze precedentemente acquisite. Quando furono scoperte le qualità eccellenti dell’amianto, l’uomo iniziò a usarlo per innumerevoli applicazioni, dalle coperture alle tubazioni, dai freni alle carrozze ferroviarie. All’inizio degli anni Novanta questo minerale è stato messo fuori legge perché ci si è accorti della sua pericolosità per la salute dell’uomo. Il guaio è che l’homo technologicus pensa di rimpiazzare Dio con la scienza. E siccome uno degli attributi divini è l’onnipotenza, si illude che la tecnologia sia onnipotente.
Non solo: poiché la tecnica migliora sempre le sue performance, l’uomo moderno tende a credere che la storia sia protesa sempre verso il progresso, sia scientifico che morale. Il Novecento è stato la prova inconfutabile di quanto questo mito fosse falso: una generazione può essere ben peggiore di quella che l’ha preceduta. Con un’aggravante di natura precisamente tecnologica: il progresso amplifica la potenza dell’uomo, rendendo gli effetti delle sue azioni ancora più imprevedibili. Nel caso del nucleare: la tecnologia rende gli incidenti meno probabili, ma la manipolazione dei minerali radioattivi porta con sé conseguenze potenzialmente devastanti, di rilevanza intercontinentale.

Il folle volo dell’uomo moderno
L’uomo medioevale possedeva modeste tecnologie, viveva meno a lungo di noi e in condizioni difficili. Forse tutto ciò lo aiutava a conservarsi profondamente cattolico e quindi sanamente realista, e a percepire in maniera nettissima la grandezza e insieme la dimensione del limite insita nell’umano. Dante ce ne offre una magnifica sintesi nel tratteggiare la figura di Ulisse, saggio quando arringa i suoi compagni dicendo: «Considerate la vostra semenza: fatti non foste a viver come bruti ma per seguire virtute e conoscenza» (Inferno, Canto XXVI, 118-120). Per il medioevo di san Tommaso d’Aquino, l‘uomo è definibile come “colui che conosce” la realtà, la studia, la indaga. Ma lo stesso Ulisse compie un passo imperdonabile quando «volta nostra poppa nel mattino, de’ remi facemmo ali al folle volo» (Inferno, Canto XXVI, 125). Il folle volo è il passaggio all’uomo dell’Umanesimo, che è definibile come “colui che vuole”: la volontà, e poi il capriccio, e il desiderio, e la tracotanza, diventano la cifra della modernità. Nessun limite, nessuna norma, nessun Dio ci può fermare.

La catastrofe, Dio, il castigo
Ma il sogno di controllare e di dominare la natura si infrange contro l’evidenza dei fatti: siamo fragili, e la nostra vita è appesa a un filo. L’uomo non basta a sé stesso, e in una società che si affida ciecamente alla tecnologia e al benessere economico, Dio torna visibile solo quando i nostri occhi si riempiono di lacrime. Il giorno di Ognissanti del 1755 un terremoto si abbatte su Lisbona: muoiono improvvisamente almeno 60mila (secondo altre fonti 90.000) su 150.000 abitanti della città. Nel 1923 in Giappone, un sisma spaventoso si abbatte su Tokyo e Yokohama: le vittime sono 200.000. L’11 marzo del 2011 il terremoto e il maremoto mietono in Giappone quasi 30.000 vittime. Nonostante il passare del tempo e il miglioramento delle tecnologie, gli uomini continuano a patire scacco matto dalla morte, che arriva quando meno se l’aspettano e anche senza aver commesso quegli errori che, magari, possono spiegare il guasto di una centrale nucleare. Questi fatti ci interrogano, e da sempre suscitano domande e inquietudini. La tradizione e la dottrina della Chiesa forniscono una risposta chiara e sicura, che non è cambiata né può cambiare, e alla quale ha reso testimonianza in questi giorni Roberto de Mattei. Il quale ha ricordato anche l’esitenza dei castighi di Dio, perché l’uomo comprenda il male in cui è caduto e con la conversione si salvi dalla condanna eterna. Non è che Dio voglia il male o non sia misericordioso: ma è anche nel castigo che si può riconoscere la sua misericordia, come un padre ama suo figlio anche quando lo rimprovera. I cataclismi travolgono interi popoli, colpendo buoni e cattivi, colpevoli e innocenti: ma devono farci riflettere, e pensare che la campana suona sempre anche per ciascuno di noi.

 
 
 
 

 

IL TIMONE  N. 103 – ANNO XIII – Maggio 2011 – pag. 16 – 17

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