Sabato 2 aprile, il Corriere della Sera, il maggior quotidiano taliano, di tradizioni laicissime, ha chiesto a Vittorio Messori il necrologio “ufficiale” di papa Giovanni Paolo II.
Quel giorno, l’articolo, con inizio in prima e copertura dell’intera seconda e terza pagina, era il più importante e visibile del giornale. Non a caso è stato ripreso in tutto il mondo.
Sperando di far cosa gradita, lo proponiamo ai nostri lettori.
Una sensazione di vuoto, il malessere nello scoprirsi più soli. È quanto sembra contrassegnare queste prime ore. Certo, come capita ad ogni morte di un uomo di Dio, il credente è diviso tra sentimenti contrastanti: dolore per la scomparsa di una persona amata; ma, al contempo, consapevolezza che quella persona è ormai nella gioia eterna e che, nel mistero della “comunione dei santi”, è ora ben più vicina e benefica di quanto non fosse sulla terra. Ma, sotto lo choc di una notizia come questa, seppure dolorosamente attesa, la reazione istintiva è quel vuoto, quel disagio, quella solitudine che dicevo. Per tutti. Cattolici o altro che si sia.
Dunque, la sua avventura è giunta al traguardo. Ma non a quello, irreparabile, sepolcrale, che crede il «mondo»: per la fede, il capitolo sulla morte non è che la fine di un libro, al quale sempre ne segue un altro. Interminabile. Eterno. Quello più importante.
Quello di cui tutta la vita terrena non è stato che prologo e preparazione. Il credente si smarrisce nel meditare sull’incontro tra il Cristo glorioso nei Cieli e colui che è stato il capo terreno della sua Chiesa, il suo Vicario tra gli uomini. Se ogni vita è mistero, nessuna lo è quanto quella di colui che è chiamato a succedere a Pietro nella catena che, sino alla fine della storia, deve testimoniare della verità e dell’autorità del Vangelo.
Coloro che nacquero quando Giovanni Paolo II fu eletto al pontificato sono ormai adulti, molti di loro hanno già dei figli. Noi, che eravamo ancor giovani in quell’autunno del 1978, siamo costretti da questa morte a riflettere sulla rapidità con cui gli anni si succedono: eccoci ormai maturi, se non anziani. E la parte più feconda, più produttiva della nostra vita si è svolta mentre egli parlava, scriveva, ammoniva, incoraggiava, viaggiava, reggeva la Chiesa. Il suo pontificato – il più lungo della storia, dopo quello di Pio IX e (forse) di San Pietro – è stato come un fondale sul quale, lustro dopo lustro, sono sfilate le immagini delle nostre esistenze. Come non sentirsi vuoti e soli dopo tanto cammino insieme, che lo si volesse o no? dopo avere partecipato così a lungo, insieme, della tragedia e della commedia del mondo? Si vorrebbe tacere, riflettere, pregare.
Ma il vincere istinti ed emozioni è il dovere, così spesso pesante, di chi ha il privilegio e l’onere di esprimersi in pubblico, di potere (e dovere) appendere biglietti con i suoi poveri “secondo me” alla bacheca in qualche modo impudica dei media.
Facciamoci forza, dunque, imponendoci di superare la piena dei sentimenti. Che cosa, oggettivamente, è finito in queste ore? Si è interrotta la parabola vitale di un sacerdote di ottantacinque anni, ma quel pontefice polacco, ridotto negli ultimi tempi all’estrema impotenza, non si confonderà, nella memoria dei posteri, con le centinaia di confratelli che lo hanno preceduto, né sarà dimenticato quando una serie di altri lo avrà seguito.
Non si cancellerà dalla memoria degli uomini quel nome, tutto sommato poco adatto ad essere ricordato: Giovanni Paolo II, non gli icastici, inediti Cirillo o Metodio che qualcuno gli aveva suggerito, per ricordare che il suo era il primo pontificato slavo. Questo successore del capo del Collegio Apostolico era tale che, con lui, la storia dovrà fare i conti per chissà quanto.
Quella storia i cui cultori – impazienti di misurarsi con questa figura grandeggiante – non hanno voluto aspettare la conclusione della sua vita e su di lui hanno già prodotto una miriade di libri, spesso ponderosi eppur subito superati dagli eventi. Solo il passare del tempo, il quietarsi delle passioni e degli odi (ci sono stati, ci sono anche questi), ci daranno la misura di una statura che già scorgiamo memorabile.
Il lettore è consapevole che non sto esagerando, scosso dalle emozioni del momento. È con lucidità e con cognizione di causa che oso dirlo: il titolo di Magnus, che la Chiesa – rarissimamente – ha attribuito ad altri suoi pontefici, sembra davvero adeguato anche nel suo caso. So di poterlo dire, ora che ci ha preceduti, ora che è stato convocato all’incontro con quel Cristo di cui, per i fedeli, è stato il rappresentante vivente, qui in terra. Posso dirlo, dunque, perchè non ho mai ceduto all’apologia cortigiana, nonostante l’ammirazione e l’affetto e pur grato della stima che egli mi mostrò e che lo indusse a chiedermi di realizzare con lui la prima intervista della storia a un pontefice.
Non ho mancato, quando in coscienza mi sembrasse doveroso, di avanzare qualche rilievo, per quanto ovviamente rispettoso, ad alcuni aspetti del suo pontificato. E l’ho fatto proprio su questo giornale, soprattutto durante l’anno giubilare, per quanto
riguarda certi cedimenti alle esigenze spettacolari, televisive.
Ma, soprattutto, ho espresso (a nome di molti) perplessità per quelle richieste di scuse e di perdoni, di per sé teologicamente giustificabili ma che sono state colte dall’opinione pubblica, influenzata dai titoli di giornali e telegiornali, non come il tradizionale riconoscimento che la Chiesa è composta di peccatori, ma come se la Chiesa stessa fosse peccatrice. Il che cozza frontalmente con la costante fede cattolica nella innocenza immacolata della Ecclesia, Corpo e al contempo Sposa verginale del Cristo. Chi erra e pecca sono i figli della Chiesa, non la Chiesa.
Questo il Papa voleva dire. Ma questo, purtroppo, non è stato inteso. Sbavature, comunque (se davvero lo sono state) di tattica pastorale, nell’insidioso campo minato dei media, dove le trappole sono disseminate ad ogni passo. Non dimentichiamo che questo è stato il primo Papa della storia “a colori”: Pio XII fu solo radiofonico, Giovanni XXIII prototelevisivo, Paolo VI ancora in bianco e nero; ma l’inizio del pontificato di Giovanni Paolo II coincide con la diffusione dello schermo colorato e con l’esplosione di una comunicazione globale, spesso esasperata, dove era inevitabile che la Chiesa talvolta inciampasse.
A parte queste ed altre possibili incrinature, ben poco rilevanti in un quadro complessivo, crediamo di poterlo ripetere: questo Papa ha davvero meritato l’aggettivo di Magnus, di Grande.
Straordinarie le qualità umane e i doni concessegli dalla Provvidenza, tanto da poter dire, parafrasando Pio XI a proposito di don Bosco: «Qualunque cosa avesse deciso di fare, nel bene o nel male, sarebbe stato comunque il primo». Assai lungo, poi, il tempo che gli è stato concesso; enorme la mole di lavoro svolto: il maggior numero di parole pronunciate o scritte, in una serie impressionante di encicliche, di lettere apostoliche, di messaggi, di discorsi, di libri. Tanto che proprio la sovrabbondanza di insegnamento ha finito per costituire un problema. Chi è stato in grado di leggere, meditare, far proprio un insegnamento così sovrabbondante?
In più, naturalmente, la sua biografia è contrassegnata da un numero di viaggi che è di gran lunga il maggiore nella storia, tanto da far parlare di “pontificato ambulante”. Queste visite alla maggioranza delle comunità ecclesiali del mondo sono state criticate da qualcuno, all’interno stesso della Chiesa. Innanzitutto, perchè avrebbero sottratto tempo ed energie al governo ordinario della istituzione; e, poi, perchè sarebbero state causa di grandi spese, motivo di pesanti indebitamenti per Paesi e diocesi spesso poveri. In realtà, l’esperienza mostra che l’arrivo del Papa in luoghi dove nessun altro suo predecessore era giunto ha costituito uno choc benefico, una fonte di consolazione, di fiducia, di impegno, soprattutto là dove quella cattolica è una comunità minoritaria, non di rado malvista, emarginata se non perseguitata. E dal racconto dei missionari si apprende che anche la necessità di far fronte a quelle spese contestate ha rappresentato una spinta al dinamismo, ad una uscita dalla routine, a una mobilitazione delle forze per far fronte all’impegno.
Ho sempre pensato, peraltro, che non fossero soltanto le pur importanti preoccupazioni pastorali a sospingere Giovanni Paolo II sulle vie del mondo. Agiva in lui, credo, anche quella ispirazione escatologica, da Fine dei Tempi, che contrassegna da sempre, e in profondo, la spiritualità slava. Profetizza Gesù stesso che, prima del suo ritorno finale, la Buona Novella, il Vangelo, dovrà essere proclamato in tutto il mondo: che questo si converta o meno, ciò che importa è che la Redenzione sia annunciata in ogni angolo del pianeta. È possibile che anche questo desiderio di affrettare la Parusia, il ritorno del Signore, stesse sotto a questa ansia di coprire con le sue visite ogni continente. Una lettura che sembra confermata pure dalla usanza, nuova anch’essa nella storia del pontificato, di baciare la terra all’arrivo: quasi a sacralizzarla, a confermare che anche quei luoghi costituiscono una tessera del mosaico globale che è necessario comporre perchè il Redentore ritorni a concludere e giudicare la storia.
Grande Papato – sin troppo ovvio ricordarlo – anche per il ruolo assunto nei nuovi assetti geopolitici del mondo. È indubbio che le prime fessure nel monolite comunista si sono aperte nella sua Polonia, dove soltanto la forza morale da cui si sentivano protetti ha permesso ai lavoratori di sfidare il regime con i primi scioperi non repressi immediatamente nel sangue. È da quei cantieri di Danzica, significativamente intitolati a Lenin – ma presidiati durante l’occupazione operaia dall’icona della Vergine di Czesthocowa – che si è messa in moto la slavina, divenuta valanga, che ha portato alla morte, senza onore e senza gloria, del cosiddetto comunismo realizzato.
Quel trionfo, in realtà, è stato seguito da delusioni ed amarezze: decenni di propaganda ateistica, di sradicamento di ogni senso morale, di ideologia disumana, di ipocrisia onnipresente, avevano lasciato all’Est conseguenze più profonde di quanto, forse, avesse valutato Karol Wojtyla. Sta di fatto che il rinascimento religioso atteso non si è verificato o è stato molto inferiore alle attese. Dopo tante privazioni, molti, moltissimi, hanno subito preso la strada dei supermercati, non quella delle chiese riaperte; dopo tanta oppressione, troppi sono stati attratti dall’anarchia morale, non dagli austeri precetti cattolici.
C’è da chiedersi se davvero Giovanni Paolo II auspicasse il collasso totale di quei regimi e il loro congedo definitivo dalla storia, non lasciando dietro di sé che macerie e miserie, non solo materiali ma anche spirituali. Quelli che, per anni, lo hanno accusato di essere un Papa “conservatore”, che lo hanno sospettato addirittura di un “piano di restaurazione”, dimenticano molte cose e, tra esse, il fatto che l’arcivescovo, e poi cardinale, Wojtyla era in Polonia il leader dell’ala conciliare, tanto da non destare grandi simpatie nei confratelli dell’ala tradizionale.
Pur vescovo tra i più giovani, aveva non solo partecipato con entusiasmo al Vaticano II ma aveva collaborato alla stesura dell’ultimo documento, la Gaudium et spes, quello del dialogo tra Chiesa e mondo moderno. Dunque, la costituzione conciliare considerata “più aperta”, la bestia nera del tradizionalismo cattolico. Saranno gli storici a ricostruire con esattezza le cose: ma si può dire sin da ora che, da quanto appare dalla sua attività episcopale e poi dai suo contatti da pontefice con i regimi dell’Est, c’era probabilmente in lui la speranza non tanto di sradicare completamente il sistema ma di riformarlo a fondo, di modificarlo, di umanizzarlo, di aprirlo ai valori dello spirito. Se sulla sua pelle stessa aveva sperimentato il peso della dittatura comunista, conosceva bene anche l’Occidente, di cui non lo entusiasmavano di certo gli anarchismi etici, i consumismi feticistici, le ideologie radicaleggianti, gli atteggiamenti idolatrici verso denaro e successo.
Non dimentichiamo che solo grazie alla presenza a Roma di un Papa polacco poté sorgere Solidarnosc, cioè il primo sindacato autonomo e indipendente in un Paese dell’Est europeo. Ma non dimentichiamo neppure che fu proprio quello stesso pontefice a frenare quel sindacato coraggioso, che sembrava però chiedere più di quanto il regime potesse concedere e impedì un’insurrezione nel Paese quando Lech Walesa e i suoi furono messi fuorilegge. Nel generale Jaruzelski, primo ministro e poi capo dello Stato, Wojtyla si sforzò di vedere innanzitutto il patriota, il realista, il riformista sostanzialmente moderato. E quello statista ebbe in Vaticano, in fondo, un alleato per una possibile transizione, dove la libertà si unisse alla socialità, la democrazia all’ordine morale. Anche Gorbaciov non trovò in Giovanni Paolo II un nemico ostile e chiuso ma un padre saggio, pronto a dare consigli e, forse, per quanto possibile, un aiuto per giungere alla libertà e alla giustizia senza passare attraverso la rovina di tutto il sistema.
Venne invece – sostanzialmente improvviso ed imprevisto, almeno in quelle dimensioni – il tracollo totale che sappiamo e a Varsavia, come ovunque nell’Europa Orientale, con la democrazia parlamentare giunsero anche quelli che per la prospettiva di Giovanni Paolo II erano “i veleni dell’Occidente”. Mentre le comunità cattoliche non conoscevano la fioritura sperata, mentre si scopriva quanta devastazione morale fosse stata provocata da quei regimi, ciò che restava delle Chiese ortodosse slave, a cominciare da quella russa, mostravano di non avere meditato sino in fondo sulla tragica lezione della persecuzione.
O, forse, proprio perchè così martirizzate, sino al limite della sparizione, si chiudevano in un isolamento stizzoso, sorretto dall’antica ostilità anti-papista. Resta comunque il fatto che Giovanni Paolo II è morto avendo visitato tutti, o quasi, i Paesi del mondo, tranne (oltre alla Cina) la Santa Russia. Se ne è andato senza aver potuto baciare la pista di Seremetevo, l’aeroporto di Mosca, “Terza Roma”: e, questo, perchè dichiarato unwelcome guest, ospite sgradito, dalla maggioranza della gerarchia ortodossa. Nei suoi ultimi anni è stato consapevole che si è molto indebolita l’unanimità entusiastica e incondizionata con cui, prima del 1989, si guardava a lui non solo a Varsavia ma in tutti i Paesi sotto il tallone sovietico. È morto constatando che il suo Grande Progetto di un’ Europa chiamata a respirare con due polmoni è lungi dal realizzarsi. Occidente ed Oriente sembrano uniti non certo dalla ricerca di valori cristiani, bensì da un edonismo senza regole né limiti. Resta peraltro il fatto che anche, forse soprattutto, grazie al suo impegno, al suo carisma, alla sua predicazione le frontiere della libertà, nel mondo, sono state straordinariamente allargate. E dalla libertà può sorgere tutto: anche un nuovo fervore religioso, persino il desiderio di una ritrovata fraternità fra gli uomini nel nome di un Padre comune.
La sua grandezza si esprimeva pure nella impossibilità di classificarlo secondo la banalità degli schemi consueti. Per esprimerci con un linguaggio politico, pur così fuorviante nella dimensione religiosa: un Papa progressista, aperto? o conservatore, tradizionalista? di “destra” o di “sinistra”? Entrambe le cose, diremmo, se fossimo costretti a una risposta. E anche in questa “duplicità” sta uno dei segreti della straordinarietà di questo Papato.
In “politica estera” (per continuare a servirci di termini tratti dalla società civile), cioè nei rapporti con il mondo laico, con le altre religioni, con le diverse confessioni cristiane, Giovanni Paolo II è stato di un’apertura, di una volontà dialogante tali da suscitare critiche e mugugni in coloro che, nella Chiesa, videro addirittura qualcosa di blasfemo nelle riunioni ecumeniche di Assisi e in altre occasioni del genere. Fu il primo pontefice ad entrare in una sinagoga, il primo in una moschea; il Papa che non ha esitato a rendere visita a ogni sorta di regime politico – dalla Cuba di Castro, al Cile dei generali, al Sudan genocida verso i cristiani, al Messico del laicismo di Stato, alla Turchia della emarginazione cattolica – a tutti annunciando lo stesso messaggio di perdono e di riconciliazione. Addirittura temerario, si direbbe, nello spalancare le braccia ad ogni uomo, quale che fosse la sua fede o la sua incredulità.
Ma questo dialogo spinto quasi agli estremi ha potuto basarlo, e condurlo senza pericoli per l’identità cattolica, grazie a una “politica interna” di riconferma, spesso di ricostruzione, della dottrina di sempre. Checché ne dicano superficiali e faziosi, il Vaticano II è stato la costante stella polare verso la quale ha orientato il suo governo della Chiesa. Tutto è stato da lui rinnovato alla luce di quel Concilio che, lo dicevamo, lo ha visto tra i protagonisti più attivi entusiasti. Conservando, però, consapevolezza che quel grande evento non è stata una frattura ma un approfondimento, non la scoperta di novità inaudite ma, semmai, la riscoperta della grandezza e dell’attualità della Tradizione antica. Nova et vetera, le cose nuove e quelle vecchie, per dirla con le parole evangeliche. Con la beatificazione, nello stesso giorno, di Pio IX, il Papa del Vaticano I, e di Giovanni XXIII, il Papa del Vaticano II, Karol Wojtyla ha dato un segno forte (anche se malcompreso da molti) di quella continuità della Chiesa cui ha ispirato il suo pontificato. E quel Catechismo Universale che ha tenacemente voluto è al contempo nuovo e antico: non solo il dogma ma anche le tradizioni e le devozioni vi sono riconfermati, eppure in uno spirito interamente conciliare.
Dunque, dialogo all’esterno e ortodossia all’interno, libertà da figli di Dio e disciplina da cattolici obbedienti, apertura a tutti e vigilanza sulla dottrina. In questa sintesi, ci pare, sta soprattutto la grandezza e la fecondità di un pontificato che, proprio per ciò, appare inclassificabile se non contraddittorio a chi non si avveda di una “ambiguità” voluta e perseguita con lucido disegno.
Una grande conferma della legge fondante del cattolicesimo: non l’aut-aut dell’eresia ma l’et-et dell’ortodossia.
Come sempre avviene alla scomparsa di leader così grandi e carismatici, il successore non avrà un ruolo agevole. Il confronto cui tutti, istintivamente, finiremo col cedere sarà troppo impegnativo.
In ogni caso, chiunque sia, il nuovo Successore di Pietro che uscirà dal Conclave sarà straordinariamente avvantaggiato dal lavoro così lungo, appassionato e al contempo tenacissimo di questo suo predecessore. La Chiesa, per alcuni aspetti, è tuttora acciaccata ma sembra ormai uscita dallo smarrimento e dalla crisi che seguì il Concilio. Molto di ciò che quei Padri richiedevano è stato realizzato; dopo lo sbandamento, le fila della pacifica armata ecclesiale sembrano almeno in parte ricomposte. La strada lungo la quale procedere è ormai ben tracciata, anche se le difficoltà non mancheranno: ma quando mai sono mancate alla Chiesa, sempre trionfante del tempo e dei nemici e al contempo sempre “in agonia sino alla fine del mondo”, per dirla con Pascal?
Non si è profeti ma, semplicemente, realisti nel prevedere che il nuovo Papa avrà tra i suoi primi impegni uno cui si dedicherà – ne siamo certi – con sollecitudine e gioia. Istruire, cioè, la pratica per l’avvio del processo di beatificazione di Karol Wojtyla, sacerdote polacco, Papa con il nome di Giovanni Paolo II.
Del resto, già lo vediamo in queste ore: nelle chiese non è tanto “per lui”, è “lui” che si prega. È solo l’inizio, vedrete, di una devozione che andrà sempre crescendo e che accompagnerà il futuro di moltitudini, nel mondo intero.
IL TIMONE – N. 43 – ANNO VII – Maggio 2005 – pag. 64-65-66