Firenze 1896, una giornata di quelle che sanno essere luminose solo in certi luoghi della Toscana.
Da un cielo bigio e chiuso come un Canto del Purgatorio viene giù una pioggerella traditrice. Sul marciapiede di via dell’Orivolo, due giovanotti sono presi a discutere dell’universo mondo.
Uno si chiama Domenico Giuliotti, ha diciannove anni e viene dalla campagna, l’altro è un certo Giovanni Papini, ha quindici anni ed è della città: la prima metà del Novecento letterario porterà il loro segno. Il primo, dal suo ritiro di Greve in Chianti, fonderà “La Torre, organo della reazione spirituale italiana”, scriverà libri da togliere il fiato come L’ora di Barabba, Il Ponte sul Mondo, Tizzi e fiamme, farà conoscere in Italia i grandi cattolici reazionari del XIX secolo. Il secondo sarà l’anima di riviste come “Leonardo”, “La Voce”, “Lacerba”, produrrà opere come Un uomo finito, Storia di Cristo, Lettere agli uomini di Papa Celestino VI.
Insieme, pubblicheranno il Dizionario dell’Omo Salvatico e Umilissime scuse. Grandi scrittori, grandi amici, grandi cattolici, moriranno entrambi nel 1956 e saranno volentieri dimenticati dal mondo cialtrone dei salotti letterari.
Ma dovranno passare molti anni prima che quella giornata fiorentina del 1896 sortisca ciò che stava covando. Dopo le grullerie giovanili, Giuliotti trova il suo posto nella Chiesa di Roma e da lì fulmina senza pietà tutto ciò che nel mondo moderno sappia di anticristiano: quasi tutto. Papini inizia un periplo che lo porterà ai lidi del darwinismo, del superomismo, del paganesimo, del futurismo, fino a quando, nel 1912, confesserà di sentirsi un uomo finito. Sono anni in cui i due si annusano, si rincorrono, si azzannano. Dalle rispettive riviste, sui libri, poi tramite una corrispondenza che si farà sempre più fitta, conducono un violentissimo duello spirituale che potrà concludersi solo con la morte e la rinascita di uno dei contendenti: sul campo, cadrà e risorgerà Papini, la canaglia che per decenni si era sentita viva solo sbeffeggiando Dio.
Dalla sua parte, Giuliotti ha l’amore per il prossimo che prova solo chi abbracci Cristo prima di ogni altra cosa. Ma ha pure il grande interesse che l’intelligenza di Papini gli aveva suscitato fin dal primo incontro. Per questo si mette sulle tracce del giovane fiorentino, lo bracca come un cacciatore fa con l’animale ferito, ma si guarda bene dal finirlo perché l’altro sappia che, prima o poi, lo verrà a prendere per portare la sua anima a Cristo. Su “La Torre”, nel 1913, parlando dei figlioletti di Nietzsche e Stirner scrive: «Giovanni Papini, un bastardo di questa razza, ha scritto un libro che ha per titolo: L’altra metà, e per sottotitolo: Saggio mefistofelico. Lo avrebbe potuto intitolare Echi. Ad ogni modo è uno dei tanti libri che sono stupidi e pestiferi. Stupidi per coloro che hanno domandato e ricevuto dalla fede una risposta eterna; pestiferi per coloro che, morsicati dal dubbio, vacillano».
Su “Lacerba”, Papini risponde catologando Giuliotti tra i cattolici belve: «Sono intransigenti – a discorsi – e aggressivi più che non comporti la loro fede. In generale sono antichi miscredenti che hanno inciampato su qualche sasso sulla via di Damasco e, come tutti i neofiti, si son buttati subito alle peggiori estremità. (…) Codesta genia vien dalla Francia. Ecco la dinastia: De Maistre, Hello, Barbey d’Aurevilly, Léon Bloy. Alcuni di codesti tipi hanno fegato e scrivono magnificamente. Ma vi sono in Italia, oggi, alcuni loro scimmiottini i quali scrivono male e se la pigliano coi francesi da cui discendono. Attualmente ne vivono due o tre esemplari nelle province toscane, a Siena, a Greve, all’Impruneta».
Ma la certezza blasfema di Papini è una corazza che comincia a creparsi. Fuori, luccica di articoli che si intitolano “Morte ai morti”, “Gesù peccatore”, “Odiatevi gli uni con gli altri”. Dentro, nasconde i tormenti di Un uomo finito, sfogo di una creatura stanca di aver collezionato amarezze. Se alza lo sguardo verso il duellante di Greve, quello di Firenze capisce che, quanto lui ha assorbito drammaticamente, l’altro ha invece saputo vagliare e depurare.
In questa temperie, gli attacchi amorevoli di Giuliotti a mezzo stampa sono rafforzati da quelli epistolari. La prima lettera significativa è del 3 maggio 1916. Papini, ha scritto un articolo su Léon Bloy per “Il Resto del Carlino” e la belva grevigiana lo ha visto: «Caro Papini, (…) dimentico, per un momento, quel fetido, ignobilissimo e stupidissimo porcume de “Lacerba” e il falso Papini. Ma Léon Bloy lo conosco anch’io; tanto lo conosco e lo amo, che vorrei fare dei suoi scritti una scelta per il Carabba. (…) Venga a trovarmi. Credo che meriti il conto d’essere sballottati per venti chilometri, quando, all’arrivo, sia ad aspettarci un UOMO».
La risposta è di quattro giorni dopo e porta questo post scriptum: «In quale visibile maniera, uomo cristiano, si manifesta la sua Fede? Bloy lavora, lavora e lavora – anche vecchio. E lei legge, rugge e sta zitto. Ha convertito qualcuno? Ha ricondotto un’anima a Dio. Ha fatto sentire, collo strumento dell’Arte, la verità terribile del Cattolicesimo e della Santità».
Papini ha bisogno di capire dove sia il limite e se l’amico che si sta profilando sia forte abbastanza da costringerlo a inginocchiarsi. Perciò, alle provocazioni diaboliche dell’intellettuale, sostituisce quelle sante del bambino.
Si fa piccolo per accostarsi a Dio e saggia la stretta di mano di chi ce lo sta portando. Riconoscendo l’amore fraterno nell’assiduità tirannica con cui Giuliotti lo tallona, in una lettera del 10 giugno 1919, gli scrive: «Io non sono, come lei sa, un uomo di complimenti e mi crederà se io le dico, sinceramente e umilmente, che spesso le sue parole mi hanno fatto bene. Io sono – l’avrà indovinato – un religioso senza religione, un mistico senza Dio, cioè un disperato, un con-dannato. Un uomo di fede, di vera fede – che non sia uno sciocco né un mediocre – mi attira potentemente anche se non posso ripetere colla stessa fermezza le sue parole. Ma forse potremo, in seguito, morire colla identica speranza».
Poco dopo, comincia a scrivere la Storia di Cristo e alimenta le sue veglie con i Fioretti di San Francesco e L’imitazione di Cristo. Quando, il 10 ottobre dell’anno successivo lo avrà terminato, si affretterà a scrivere all’amico: «Ho grande speranza che ti piacerà – alcune parti, s’intende, più delle altre ma non c’è niente che possa offenderti.
(…). E se in passato ho fatto del male a qualcuno spero di rimediare con questo e con altri libri che farò».
Ma Giuliotti lo sapeva già. Qualche mese prima, al momento di licenziare L’ora di Barabba, aveva inserito una postilla alla “Lettera a Papini” che terminava così: «Oggi mi scrive da Venezia: “Vo tutte le mattine in S.Marco. Stanotte la campana della basilica mi ha svegliato e m’è venuta sulle labbra, non so perché, improvvisamente, l’Ave Maria, che da tanti anni non dicevo più e che mi pareva di non poter ricordare fino in fondo”. È il primo atto della Grazia, è il richiamo irresistibilmente materno della Mater Salvatoris, della Virgo Potens.
Domani Giovanni Papini dirà: Credo».
«La Religione è il Cattolicesimo. A tutte le religioni e a tutte le filosofie, prima e dopo Cristo, parzialmente vere, dètte di frego il Vangelo.
“Il Vangelo è il Tempio della assoluta Verità vivente. La Chiesa Cattolica n’è la porta; l’insegnamento tradizionale cattolico il vestibolo. Questo Credo, che bastò a Dante, anche a noi basta”».
(Domenico Giuliotti, “La nostra fede”, in “La Torre”, n. 1 (1913), ora raccolto in Tizzi e fiamme, Cantagalli, 1999, p. 24).
Domenico Giuliotti L’ora di Barabba (prima edizione Vallecchi, 1920; ora Edizioni Logos, 1982).
Tizzi e fiamme (prima edizione Vallecchi, 1925; ora Edizioni Cantagalli, 1999).
Giovanni Papini Un uomo finito (prima edizione Libreria della Voce, 1912; ora in Opere, Mondadori).
Storia di Cristo (prima edizione Vallecchi, 1921; ora in Opere, Mondadori).
IL TIMONE – N. 55 – ANNO VIII – Luglio/Agosto 2006 – pag. 50 – 51