L’uomo antico sa di essere un puntino insignificante di fronte all’immensità del creato. Nuove invenzioni potranno allargare il perimetro del suo operare, ma in misura sempre trascurabile. Superare il proprio limite è il peccato fondamentale. Oggi lo abbiamo dimenticato
Tertulliano, uno dei più antichi scrittori della Latinità cristiana, proponeva nel trattato De anima l’idea dell’anima per natura cristiana (anima naturaliter christiana). Questo non significa né che l’uomo da solo possa scoprire le verità del Cristianesimo (perché questo renderebbe inutile la Rivelazione) né che l’accoglimento della verità cristiana sia automatico (perché questo vanificherebbe la libertà dell’uomo). L’anima è «naturalmente cristiana» perché solo il Cristianesimo è in grado di dare risposte soddisfacenti e definitive alle sue domande e ai suoi desideri. Chi legge i testi dell’antica letteratura pagana si rende conto della validità di questa affermazione. Tutti gli interrogativi che i più attenti e profondi scrittori pagani si pongono trovano il loro compimento nelle risposte cristiane.
Uno dei motivi più ricorrenti nella letteratura greca e latina precristiana è quello della centralità dell’uomo. Molti autori intessono inni all’uomo, meraviglia della natura, sintesi di tutto l’ordine naturale in quanto raccoglie in sé l’elemento razionale e quello irrazionale, essere che vive sulla terra, ma si protende verso il cielo dove abitano gli dèi: «microcosmo » lo definiscono i filosofi, «misura di tutte le cose». L’uomo ha saputo con la sua intelligenza e la sua tenacia sottomettere il creato, ha inventato la parola e il pensiero, ha trovato rimedio contro molte malattie: «in nessun modo procede verso il futuro privo di risorse» (Sofocle, Antigone, v. 360 s.).
Ma questa orgogliosa fiducia nelle capacità umane si scontra con la constatazione realistica dei limiti della nostra umanità. Pur con tutti i ritrovati dell’arte e della tecnica, l’uomo si scopre continuamente privo di difese di fronte agli eventi della vita, e la morte costituisce un limite intrinseco e insuperabile. L’uomo antico sa di essere un puntino insignificante di fronte all’immensità del creato e capisce anche che nuove invenzioni potranno allargare il perimetro del suo operare, ma in misura sempre trascurabile. Ogni momento della vita è esposto all’incertezza. «Chi conosce bene il dio domani?», si chiede il poeta Callimaco. Basta un nulla per infrangere l’orgoglio dell’uomo.
Vi è un secondo limite che rende ancora più ristretta la sfera dell’azione umana. In un universo ben regolato come è il kósmos dei Greci, è inevitabile che ad ogni creatura, dal più piccolo degli insetti fino al sommo Zeus, sia stato assegnato uno spazio d’azione preciso. A questo modo di vedere le cose contribuisce anche l’idea che gli antichi hanno dell’origine del mondo. Se per la Bibbia esiste un principio che dipende da un libero atto di creazione operato da Dio, all’uomo pagano una simile spiegazione è preclusa. La frase iniziale della Bibbia ci proietta verso l’eternità, ma il pagano non è in grado di percepire l’idea dell’eternità: davanti all’infinito la mente dell’uomo «si spaura». Per l’uomo antico non esiste né un inizio né una creazione, ma solo un tempo remoto in cui lo sguardo si perde. Esiodo, uno dei più antichi poeti della Grecia, così scrive nella Teogonia, un’opera in cui tenta di dare ordine alle diverse genealogie degli dèi: «nei primissimi tempi (prótista) vi fu il Caos: poi la Terra dall’ampio petto, stabile sede di tutti» e poi il Tartaro nebbioso ed Eros e via via altre divinità (vv. 116 ss.). Se per la Bibbia il creato fin dall’inizio rispecchia la bellezza del disegno divino («e Dio vide che ciò era buono», ripete più volte il racconto della creazione), per l’uomo antico l’universo primitivo è popolato da forze malefiche e da mostri: generazioni di dèi che lottano per sopraffarsi vicendevolmente, fino alla situazione attuale in cui le diverse forze in contrasto sono pacificate e si sono imposte la giustizia (Dike) e le leggi di Zeus.
La percezione del limite è talmente forte che nella tragedia greca il superamento (volontario o inconscio) del limite assegnato a ciascuno è il peccato fondamentale (hýbris) che scatena l’ira degli dèi in qualche caso fino all’annientamento di intere stirpi.
Quella del paganesimo antico è un’antropologia senza Rivelazione, capace di intuizioni penetranti (non per nulla molti antichi autori cristiani vi percepirono dei «semi di verità»), percorsa da folgorazioni che affascinano. In alcuni autori antichi si percepiscono accenti di intenso desiderio per il divino (si pensi a Eschilo, a Virgilio, a tutta l’elaborazione di idee e di pensiero di Platone e di tanti filosofi). Eppure, quel Dio ignoto e atteso si sarebbe poi rivelato non ai sapienti della cultura pagana, bensì a un popolo di pastori che non ebbe lo splendore delle arti, delle lettere e del pensiero greco-romano. Dunque la lettura di questa antropologia senza Rivelazione ci attrae proprio perché mostra fino a dove può spingersi il cuore dell’uomo, che continuamente si agita nel tentativo di capire il senso delle cose, utilizzando la ragione come strumento potente e insostituibile, ma nello stesso tempo limitato e incapace di risposte appaganti.
Il progresso tecnologico oggi ha allargato l’orizzonte del nostro operare. L’uomo moderno «è capace» di fare un’infinità di cose che l’uomo antico neppure avrebbe potuto immaginare. Se lo sguardo dell’uomo antico difficilmente e con fatica poteva andare al di là della sua contrada o della sua valle (i viaggi erano appannaggio di pochi privilegiati e richiedevano fatiche e resistenza), oggi abbiamo abbattuto le barriere dello spazio fino ad aver valicato i confini del nostro pianeta. Questo allargarsi delle capacità rende più difficile la percezione del limite.
In realtà è un’illusione ottica. L’uomo moderno è un puntino ancora più microscopico in un universo i cui confini si sono dilatati straordinariamente, perché oggi conosciamo mondi lontani milioni di anni luce, cifre tali da stordire al solo pensarci. Rimane l’orgoglio e lo stupore per la capacità dell’uomo, ma la sua piccolezza diventa ancor più infinitesimale. Gli antichi affermavano che la ragione innalza l’uomo al livello degli dèi. Non avrebbero potuto certo immaginare che a questa tensione dell’uomo verso il divino avrebbe corrisposto l’iniziativa di un Dio infinitamente grande che avrebbe accettato di scendere tra noi e di condividere la nostra caduca e precaria umanità, suggellando con l’uomo un patto di eterna alleanza.
UN LIBRO IMPORTANTE
Dionigi, I nomi divini, ESD 2010, pp. 442, € 28,00.
Questo testo (per specialisti) cerca di sondare la natura stessa di Dio, che in parte è mistero insondabile, ma in parte è anche accessibile alla comprensione dell’uomo. Per lungo tempo si è creduto che l’autore fosse discepolo di s. Paolo, ma in realtà visse nel VI secolo. È un’opera straordinaria, che ha molto influito sulla speculazione di diversi pontefici, di s. Bernardo, s. Bonaventura, s. Tommaso e molti altri. Questa nuova versione italiana, pubblicata con testo greco a fronte, fa parte della prestigiosa e importante collana Sources Chrétiennes, che le Edizioni Studio Domenicano guidate dall’ottimo padre Carbone stanno meritoriamente proponendo in edizione italiana. Il testo è corredato da un’introduzione, scritta con acribia da Moreno Morani, e da un pregevole commento teoretico di padre Giuseppe Barzaghi. (Giacomo Samek Lodovici)
Per saperne di più…
Moreno Morani – Giulia Regoliosi, Cultura classica e ricerca del divino, Il Cerchio, 2002.
Gustave Bardy, La conversione al cristianesimo nei primi secoli, Jaca Book, 2002.
IL TIMONE N. 99 – ANNO XIII – Gennaio 2011 – pag. 26 – 27