Tipico inglese figlio dell’epoca vittoriana, a 24 anni si convertì e si fece gesuita. Personalità eccentrica e sconcertante, si dedicò all’insegnamento e alla sua amata poesia. Morì a soli 45 anni, tardivamente riscoperto dalla critica
A che cosa serve un poeta? E un sacerdote? Due domande niente affatto marginali che la coscienza dei moderni si pone, di solito rispondendosi: non servono a niente né l’uno né l’altro. Così, in Occidente, presso le società “avanzate”, da tempo le vocazioni di poeta e di prete hanno preso la via inclinata verso l’estinzione. Sempre meno, gli uomini le scelgono quali compagne inseparabili di vita.
Gerard Manley Hopkins non scelse, com’è ovvio, di nascere nel 1844 a Stratford (nell’Essex, dintorni di Londra), maggiore di otto figli di una rispettabile famiglia inglese dell’epoca vittoriana: però acconsentì presto alle due prepotenti chiamate che premevano dentro di lui, e accettò di essere poeta, e divenne sacerdote. Le voci erano invisibili, ma premevano nell’animo con impulso tale da indurre il giovane a decisioni irrevocabili: «di fatto, come ti ho detto» scrisse in una lettera di quegli anni «la mia conversione quando arrivò fu in un minuto». Ventiduenne, stava studiando presso il Balliol College a Oxford; per la precisione, stava meditando sul “sé divino” narrato dall’antico poema sanscrito Śakuntalā, e aveva raggiunto alcune certezze del tutto controcorrente in Europa: «l’umanità di Socrate è più importante della sua stessa filosofia, ma alla sua bontà mancava la santità e il delicato rispetto di sé, che della santità costituisce l’attributo più congruo» (da un saggio accademico del 1863).
Così, a ventiquattr’anni, cosa terribile se vista con gli occhi del britannico medio del suo tempo, entrò nella Compagnia di Gesù: gesuita per sempre, poeta in eterno. Cattolico, cantore della bellezza. Per Hopkins, il breve pellegrinaggio nella vita terrena aveva in tale modo preso la sua svolta irreversibile.
Scrivendo sulle foglie della Sibilla
Oggi leggiamo le sue poesie, ma allora sembrarono esser scritte “per nessuno” o “ad majorem Dei gloriam”: come fiori sbocciati in un prato inaccessibile a qualunque sguardo mortale. Tra l’altro, Hopkins bruciò tutte le poesie che aveva scritto fino all’ingresso in seminario facendo voto di non scriverne più, per dedicarsi all’insegnamento delle amate lingue classiche; la decisione non ebbe tentennamenti. Se non che, nel 1875, davanti all’affondamento di una nave passeggeri – una disgrazia in cui perirono anche cinque suore missionarie – non poté resistere all’ispirazione: previa autorizzazione del suo superiore a rompere il voto, scrisse il poemetto Il naufragio del Deutschland in cui si legge (strofa XXII): «Cinque! Rivelazione e segno / cifra del Cristo sofferente. / Guardate, il marchio è di mano d’uomo e la parola è Sacrificato. / Ma la incide lui stesso scarlatta sui suoi prescelti, / premiati e pregiati: / stigma segnale, pegno a cinquefoglie / del marchio sul manto dell’agnello».
Da quel momento scaturirono dalla sua penna liriche, versi, prediche, prose: perlopiù non apprezzate dai contemporanei, forse perché costituivano il superamento dello stile (estetico cioè morale) dell’epoca vittoriana in Inghilterra, cioè il progressismo moralista. Hopkins esaltava il creato in lode al Creatore, come nel superbo sonetto intitolato “God’s grandeur” (La grandezza di Dio, 1873):
«Il mondo è carico della grandezza di Dio.
Darà fiamma, come fulmine da lamina vibrata
si raccoglie a ingrandirsi, come il gocciolio
d’olio franto.
Perché l’uomo ora
non teme la sua verga?
Generazioni hanno pestato, pestato, pestato;
e tutto è seccato dal commercio;
oscurato, macchiato dalla fatica;
e porta chiazze d’uomo e puzza d’uomo:
il suolo è nudo ora, né sente piede,
perché calzato.
Ma non per questo la natura è spenta;
vive in fondo alle cose la freschezza
più cara;
e sebbene l’ultima luce dal nero occidente
se ne sia andata
oh, il mattino, dall’orlo bruno d’oriente,
sgorga – perché lo Spirito Santo
sopra il curvo mondo cova con caldo petto
e con oh! ali di luce».
Tra i critici di oggi, padre Antonio Spadaro ha sottolineato in Hopkins la voce di un uomo che per tutta la vita si chiese: «Come salvare la bellezza dallo svanire lontano?». Le sue sono trascrizioni degli atti di presenza divina nel mondo che «è carico della bellezza di Dio», dove carico non vuol dire gravato, appesantito; carico nel senso di una carica elettrica, di una tensione che dà vita. Vocaboli come luce, folgore, fiamma, lampo dicono di una continua accensione: di un Creatore non fondamento statico dell’essere, ma autore di ogni fremito, dell’energia che muove, delle polarizzazioni, dei contrasti.
«Sia lode a Dio per le cose varie!»
I versi di Hopkins esaltarono la forma metrica classica con l’entusiasmo di chi si sentiva vivo: canti e rapimenti dell’animo, elenchi di cose create come negli antichi componimenti dei bardi, meditazioni strazianti… tutto pronunciato con un ritmo inconfondibile, che scaturiva dalle parole di un poeta-prete del tutto ordinario e all’apparenza insignificante. Che seppe cogliere la musicalità insita in ogni cosa reale, raffigurandola come un “Sacramento”: con un aspetto terreno ma anche con una sostanza eterna. Ben espressa dal sonetto “Bellezza variegata”:
«Sia gloria a Dio per le cose screziate,
Per i cieli di vario colore
come le mucche chiazzate,
Per le macchie rosa punteggiate
sulla trota che nuota;
Per le castagne fresche cadute come brage
accesa, per le ali dei fringuelli;
Per i paesaggi divisi e pezzati, chiuso,
maggese e campo arato;
E tutte le arti e gli arnesi
e gli strumenti e gli ordigni.
Tutte le cose a contrasto, originali,
sobrie, strane;
Tutto ciò che è mutevole e – chi sa conte –
maculato: Veloce, lento; dolce, aspro; vivido e opaco;
Genera senza tregua Colui, la cui bellezza
è immutabile.
Lode a Lui».
«… molto felice e molto triste…»
Ordinato sacerdote nel 1877, Hopkins predicò a Londra, Oxford, Liverpool e Glasgow, fu insegnante ed ebbe la cattedra di greco all’università. Ipersensibile e di salute delicata, visse isolato e tormentato dal senso della propria inadeguatezza. Durante la celebrazione della Messa, alcune sue prediche suscitavano nei fedeli un misto di ilarità e sconcerto, come quella pronunciata il 23 novembre del 1879 a Bedford Leigh, e che letta oggi appare come il segno di un uomo perdutamente innamorato di Gesù. Infatti, come aveva scritto a suo padre annunciandogli la decisione di farsi gesuita: «è anche possibile essere molto felice e molto triste al tempo stesso».
Egli fu un poeta che, dopo i medioevali e i mistici, percepì la Vergine Maria come un’essenza percepibile: andrebbe letta e gustata la sua lirica “La Beata Vergine paragonata all’aria che respiriamo” (1883), in cui la dolce presenza della Madonna agglutina ciò che rende grata la vita: il respiro, i cieli e le nubi (in questo caso, dalle colline del Galles), l’umido dell’erba sui prati.
In Italia lo introdusse Benedetto Croce, che però aggiunse: è un grande poeta “nonostante” sia gesuita; intanto si baloccava con i Carducci, i Pascoli e i D’Annunzio… Al contrario, Hopkins si pone al cospetto di un’arte dei due mondi uniti: naturale e sovrannaturale, assieme. Nella lirica “L’eco di piombo e l’eco d’oro” (1882), l’eco di piombo è la tentazione: lamenta lo sfiorire di ogni cosa, lo scandalo della morte; le risponde l’eco d’oro che annuncia l’esistenza di: «un altro luogo, beato luogo, uno ce n’è [dove] non un capello, né un ciglio, non il minimo ciglio è perduto; ogni capello / ogni capello del capo è contato».
In vita, Hopkins non pubblicò nulla. Intorno al 1887 trascorse un periodo di dolori e depressione: insegnava a Dublino, dove scrisse i “sonetti terribili” e dove morì di febbre tifoidea. Trent’anni dopo, l’amico Robert Bridges si decise a stampare un’antologia di scritti hopkinsiani: da allora, anche grazie alle riletture di Pound ed Eliot, questa poesia continua a parlare con la sua inconfondibile voce.
IL TIMONE N. 130 – ANNO XVI – Febbraio 2014 – pag. 48 – 49
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