Il Dio della Bibbia è un Dio che parla. La sua comunicazione, però, non è mai astratta trasmissione di conoscenze o di voleri. Quando Dio rivela, innanzitutto si rivela, cioè comunica se stesso, e nel comunicarsi dona se stesso. Dire che Dio ha parlato per mezzo dei profeti significa dire che Dio ha salvato per mezzo dei profeti. E dentro questo modo di operare, i profeti non sono mai stati trattati come un semplice mezzo. Essi erano amati quanto e più dei destinatari del messaggio che attraverso loro scorreva. Ed anche quando la loro missione li po-neva a dura prova, sottomettendo perfino ogni orgoglio, Dio alla fine si chinava su di loro coprendoli col conforto della sua ombra, così come fece amorevolmente ombra a Giona nello sconforto del deserto. È poi vero che ai profeti non è dato di sedersi a riposare in quella ombra, ed anche Giona vide seccare la sua pianta di ricino, ma questo proprio perché egli crescesse maggiormente, proprio perché la vita del profeta non è mai un mezzo, ma sempre anch’essa fine (Gio 3-4).
Anzi, la vita dei profeti diventa spesso ai nostri occhi un vero modello, uno stile di vita, un esempio di condotta, o meglio un esempio di come porsi rispetto alle cose, di come metterci all’ascolto, di come entrare a nostra volta nel flusso ininterrotto delle comunicazioni di Dio. Senza i profeti, davvero alle nostre spalle ci sarebbe solo il deserto, il piatto scorrere del tempo privo di un senso. Con gioia leggiamo pertanto, anche a millenni di distanza, Isaia e Geremia, Baruc ed Ezechiele, Daniele ed Osea, Gioele ed Amos, Abdia e Giona, Michea e Naum, Abacuc e Sofonia, Aggeo e Zaccaria, Malachia e tanti altri che pure possiamo chiamare profeti perché hanno vissuto e parlato nel solco della parola di Dio.
Profeti che, nella loro libertà, questo solco hanno talvolta lasciato; profeti che hanno corretto profeti, come Natan. Ma tutti protagonisti di un mistero che entra nel tempo e nella storia degli uomini. Un mistero che chiamavano JHWH, Elohim, El, El Shaddai, El Olam, El Haj, El Elion, Kodesh Israel, Elohe Hashamajim, il Signore Sebaoth, l’Unico, dai nomi infiniti. La brezza leggera, il vento impetuoso. Il fuoco ardente nel roveto. Fino al giorno in cui questo fuoco venne finalmente acceso per non essere più eccezionale teofania, ma permanente quotidianità: «Sono venuto a portare il fuoco sulla terra, e come vorrei che fosse già acceso!» (Lc 12,49). E gli apostoli lo videro questo fuoco. Era un fuoco acceso sulla riva del mare come sempre ne venivano accesi per asciugarsi, per cucinare e nutrirsi. Ma stavolta preparato e acceso da un Risorto (Gv 21). Un fuoco che li scaldava dentro, come sulla strada di Emmaus (Lc 24,32), un fuoco che come «vento gagliardo» aveva fatto irruzione nella loro vita posandosi su di loro (At 2,1-4). Era lo Spirito Santo. Il medesimo Spirito che aveva parlato per mezzo dei profeti. E che ora ardeva non in un roveto, ma nella stessa Parola fatta carne. E di conseguenza ardeva e parlava attraverso coloro che in Lui vivevano e vivono.
Da Cristo è disceso un “popolo di profeti”, ed ogni cristiano ha, a suo modo, il dono della profezia, cioè di parlare in suo nome, di essere sale e luce. Certo occorre la “vigilanza del cuore”, occorre “essere sentinelle”, occorre prestare udito al richiamo di Dio ad Ezechiele e farlo nostro: «Figlio dell’uomo, ti ho posto come sentinella per la casa d’Israele. Quando sentirai dalla mia bocca una parola, tu dovrai avvertirli da parte mia» (Ez 3,16-17). Troppe volte, dinanzi amici, parenti, colleghi di lavoro, il cristiano si rifugia nella finta amarezza del “Tanto non mi ascolterebbero!”.
Se non ascoltano non si salvano, viene detto ad Ezechiele, ma se non parli non ti salvi nemmeno tu! (Ez 3,18.20). Dire «Ha parlato per mezzo dei profeti», dirlo durante il Credo, cioè pregando, significa dire: riconosco che lo Spirito parla e si esprime per mezzo di me, che dentro questo popolo di profeti, che è la Chiesa, mi viene consegnata una speciale responsabilità: quella innanzitutto di ascoltare, rendendomi idoneo all’ascolto di Dio e, come immediata conseguenza, quella di annunciare, vigilando sulle ferite dell’altro, accendendo il fuoco che lo scalda, “rimanendo svegli durante la passione”, come una sentinella, come una pianta di ricino che fa la sua ombra.
IL TIMONE – N.65 – ANNO IX – Luglio/Agosto 2007 pag. 61