È una comunità minuscola ma laboriosa. Sono cattolici che vivono in Israele, pregano e celebrano la Messa in ebraico. Sono impegnati anche nel difficile compito di creare segni di pace tra ebrei e palestinesi. Conosciamoli
Passeggiando per il centro di Gerusalemme, se si imbocca la via Rabbi Kook, ci si può imbattere nella sede del Vicariato di una tra le comunità ecclesiali più originali dell’intero cattolicesimo: quella dei cattolici di lingua ebraica in Israele
La nascita della comunità
La comunità si è formata a partire dal 1948, l’anno di proclamazione dello Stato di Israele, nel quale iniziarono ad arrivare, specialmente dall’Europa, ebrei convertiti al cattolicesimo che intendevano continuare a vivere la loro fede cristiana, mantenendo certe tradizioni religiose ebraiche compatibili con la loro fede, e in solidarietà con il popolo ebraico in Israele. Erano francofoni, tedeschi, slavi (soprattutto russi), e l’unico elemento che li accomunava era il fatto che parlavano l’ebraico. Il Patriarcato latino di Gerusalemme, per aiutarli, nel 1955 creò l’Opera di San Giacomo, diventata, poi, vero e proprio Vicariato ebraico-cattolico, e avviò, nei confronti di questa piccola comunità raccoltasi a Giaffa, una cura pastorale ad hoc, chiedendo, fra l’altro, alla Santa Sede di poter utilizzare l’ebraico come lingua della liturgia. Si trattava di una richiesta molto difficile da soddisfare, perché prima del Concilio Vaticano II la Messa veniva celebrata sempre in latino. Tuttavia, il Vaticano riconobbe la particolarità di questa comunità e, già nel 1957, concesse eccezionalmente la possibilità di celebrare la liturgia in lingua ebraica, e consentì a questo gruppo di ebrei cattolici di conciliare le loro tradizioni ebraiche con la liturgia cattolica. Negli anni successivi si sono create altre tre comunità (oltre a due comunità di lingua russa): quelle di Haifa, Beer Sheva e, appunto, Gerusalemme. Numericamente, però, gli appartenenti a questa comunità sono pochi, 450-500 fedeli.
Cattolici con calendario ebraico
I membri di queste comunità celebrano i riti e la liturgia cattolica, nel rispetto delle feste e delle tradizioni ebraiche: celebrano Messe feriali e festive come in ogni parrocchia, recitano i Vespri, organizzano catechesi per ogni età, incontri di approfondimento sulla Bibbia, ritiri di Avvento e Quaresima, ma seguono il calendario ebraico, osservano la kashrut (le norme ebraiche per l’alimentazione), visitano, nel giorno di Shabbat (il sabato), la sinagoga, e pregano al Muro Occidentale della Spianata del Tempio (il Muro del Pianto) accanto agli ebrei.
Un triplice contributo per la Chiesa
Il fatto, però, che siano pochi e che non facciano proselitismo non significa che siano una comunità chiusa. Al contrario, si propongono tre scopi assai ambiziosi. Il primo è aiutare credenti di nazionalità ebraica, ma anche non ebrei, a inserirsi, da cattolici, nella società israeliana. Col passare degli anni, infatti, oltre agli ebrei cattolici israeliani, altre tre fasce di popolazione hanno iniziato, in Israele, a vivere “in ebraico”: immigrati cattolici in cerca di lavoro (molti provengono dalle Filippine, dall’America Latina, dall’India, dallo Sri Lanka, dall’Africa), rifugiati da ogni parte del mondo e cattolici locali, ma di lingua araba che, per varie ragioni (soprattutto per lavoro), si sono trasferiti nelle zone ebraiche in cui l’ebraico è la lingua dominante. Il Vicariato offre a tutte queste persone un servizio pastorale che renda loro possibile «una vita cattolica “in ebraico” nella società ebraica israeliana» (www.segnideitempi.biz , 8 dicembre 2009).
Il secondo scopo è quello di contribuire al dialogo interreligioso fra ebrei e cattolici secondo lo spirito del Concilio Vaticano II. Gli sforzi di inculturazione sono anche tentativi di integrare nell’identità cattolica, nella liturgia e nel modo di pensare dei membri di queste comunità l’incontro quotidiano con l’ebraismo e col popolo ebraico, più che mai necessario nella terra in cui il popolo di Israele, i profeti, Gesù di Nazareth hanno camminato, insegnato e vissuto. Il criterio col quale i cattolici di lingua ebraica contribuiscono al dialogo interreligioso si dipana su due versanti: verso Israele in quanto popolo ebraico, per mostrare che la Chiesa non gli è ostile, e che essere cattolico vuol dire vivere i molti aspetti che sono comuni a ebraismo e cattolicesimo; verso la Chiesa stessa, per far comprendere che, per essere cristiani fino in fondo, si deve risalire alle radici del cristianesimo stesso, che sono nell’Antico Testamento.
Il terzo scopo è quello di testimoniare i valori cristiani di amore radicale per il prossimo in una regione ancora caratterizzata dal conflitto fra israeliani e palestinesi. Una testimonianza che si vive innanzitutto all’interno delle loro comunità, in quanto luogo di incontro e di preghiera per ebrei e non ebrei (i quali sono, in maggioranza, arabi palestinesi), ma che viene proiettata all’esterno dall’impegno che i cattolici di lingua ebraica si prendono in prima persona nei molteplici campi della realtà sociale: il Padre domenicano Marcel Dubois è stato capo del Dipartimento di Filosofia dell’Università ebraica di Gerusalemme; molti insegnano teologia, archeologia, storia e altre materie in università israeliane. Ma non esiste cattolico di espressione ebraica impegnato nella società israeliana e palestinese che non contribuisca alla pace vivendo fino in fondo la sua fede: e allora si possono trovare membri di questa comunità che sono medici, avvocati, infermieri, assistenti sociali, amministratori, uomini d’affari, studenti ecc. Lo stesso Vicario, Padre David Neuhaus, ha intensi rapporti con la comunità arabo-palestinese, è docente di Sacre Scritture presso il seminario diocesano di lingua araba e presso l’Università cattolica palestinese di Betlemme, e si impegna a crescere i suoi studenti nell’amore verso il prossimo. Inoltre, esiste una comunità chiamata “Neve Shalom” (Oasi di Pace), fondata dal sacerdote domenicano Bruno Hassar (uno dei fondatori dell’Opera San Giacomo), nella quale ebrei israeliani e arabi palestinesi vivono insieme.
Le difficoltà di una piccola comunità
I problemi, però, non mancano. Le comunità sono piccole numericamente e molto diversificate; i loro membri provengono da molte parti del mondo: in parte sono ebrei e parlano ebraico, in parte no. Questo richiede una stretta vigilanza per impedire che si creino divisioni interne. Inoltre, le comunità non possiedono istituzioni educative proprie, né ambienti sociali per i giovani: il rischio che questi si allontanino dalle comunità e che si assimilino alla società ebraica israeliana secolarizzata è forte. Quando arrivano al liceo o iniziano il servizio militare, i giovani tendenzialmente smettono di andare in Chiesa. Inoltre, i cattolici di lingua ebraica non sono sempre ben visti dalla società israeliana: per loro, il sostegno pubblico (scuole, servizi sociali e culturali) è molto limitato. In molti casi, chi entra a far parte o frequenta la comunità, lo fa di nascosto, per paura dell’opposizione delle rispettive famiglie ebraiche di appartenenza.
L’impegno per la pace fra israeliani e palestinesi non risolve la diffidenza che, a volte, serpeggia anche fra cattolici di espressione ebraica e cattolici di lingua araba. Ciò che li riunisce di solito sono Messe, celebrazioni, feste o grandi eventi come la visita del Papa. L’unità della Chiesa è preservata dai vertici ecclesiastici, Patriarcato latino in testa. Ma se questa unità non si traduce nel vissuto quotidiano, rischia di essere solo formale. Per questo, Padre Neuhaus insiste nel richiamare i cattolici di lingua ebraica a non chiudersi «nelle sagrestie, nelle nostre liturgie, perché Cristo ci chiama ad abbattere i muri per portare la sua pace» (www.terrasanta.net , 22 ottobre 2010). In un’intervista rilasciata due anni fa al settimanale Tempi (4 maggio 2009), il francescano israeliano Padre David Jaeger aveva suggerito alla Santa Sede di creare una diocesi di espressione ebraica, che diventasse portavoce e sostegno di tutti i cattolici non di espressione araba di fronte alla società israeliana. Non si può escludere che, se venisse realizzata, essa potrebbe risultare di grande aiuto al piccolo Vicariato per i cattolici di lingua ebraica, e rendere più efficace la sua azione all’interno delle sue comunità e, all’esterno,
Padre David Neuhaus
Padre David Neuhaus è nato a Johannesburg nel 1962, figlio di ebrei tedeschi rifugiatisi negli anni Trenta in Sud Africa. È arrivato a Gerusalemme all’età di 15 anni e si è convertito dall’ebraismo al cattolicesimo grazie all’incontro e alla frequentazione di una religiosa ortodossa, Madre Barbara. A 26 anni è stato battezzato nella Chiesa di San Salvatore a Gerusalemme. Nel 1992 è entrato nella Compagnia di Gesù, ha compiuto il suo noviziato in Egitto, ha studiato Teologia e Sacra Scrittura a Roma e in Francia. Nel 2000 è stato ordinato prete. Si è laureato e ha completato il percorso di dottorato in Scienze Politiche presso l’Università di Gerusalemme. Dal 2001 insegna “Introduzione al giudaismo” e “Introduzione all’Antico Testamento” all’Università di Betlemme. Insegna Sacra Scrittura al seminario del Patriarcato Latino di Gerusalemme. Ha pubblicato vari studi sulle relazioni politiche fra israeliani e palestinesi e sul rapporto fra ebrei e cristiani. Dal 2008 è Vicario patriarcale dell’Opera San Giacomo.
Per chi volesse maggiori informazioni, l’Opera San Giacomo ha un suo sito internet: www.catholic.co.il
IL TIMONE N. 105 – ANNO XIII – Luglio/Agosto 2011 – pag. 54 – 55
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