Voci della poesia del Novecento. Eliot, esempio di una lettura cristiana della letteratura. E un’antologia ricorda Maria nella poesia italiana del Novecento.
Verso la metà degli anni Trenta, mentre le vicende bellico-politiche andavano accumulando nubi minacciose sul destino delle nazioni europee, da un posto come un altro sperduto nei sobborghi londinesi si levò una voce: quella di un poeta, già celebrato in precedenza come artista d'avanguardia, caduto da qualche tempo in uno strano cono d'ombra, forse a causa della sua conversione alla Chiesa Alta d'Inghilterra. Correva l'anno 1934, e quell'uomo era Thomas Stearns Eliot; le sue parole non stavano ora da sole sulla bianca pagina di una raccolta poetica: questa volta, risuonavano in un assieme polifonico, costituivano un coro, mescolandosi ad accenti popolari, ai timbri delle donne e dei bambini e dei lavoratori di Londra. Il libro si chiamava La Roccia ed Eliot ne aveva curato I Cori.
Che cosa era accaduto? Che il poeta intendeva contribuire al finanziamento per la costruzione di nuovi edifici di culto, e contribuì alla sua maniera, con un'offerta materiale: le liriche per uno spettacolo teatrale i cui proventi sarebbero stati devoluti al fine di quella beneficenza. Così avvenne: l'allestimento andò in scena, si ebbero repliche con affluenza di pubblico, l'incasso fu cospicuo, le chiese dunque si eressero. Ma nel corso dei decenni successivi, l'eclissi della poesia eliotiana fu ancora maggiore: malgrado il conferimento del premio Nobel per la letteratura nel 1948, da allora per gli uomini (e le donne) mediamente colti il nome di Eliot è subito accostato ai versi de La terra desolata ("The Waste Land”, 1922). E basta, perché di norma l’accostamento si ferma lì, per tralasciare senza scrupoli gli oltre quarant'anni di produzione artistica seguente: ma quando il poeta angloamericano morirà, nel 1965, la sua eredità in materia di opere teatrali e saggistica costituirà un vero e proprio magistero fortemente improntato a una lettura cristiana della letteratura. È forse superfluo aggiungere che è giusto questo aspetto della sua opera a essere più trascurato.
La Roccia, cioè san Pietro
Quel poco che di Eliot è stato tradotto in Italia, circola da decenni in una veste poco accessibile e ancor meno appetibile: per esempio, l'opera che qui presentiamo non è mai stata trasferita per intero in lingua italiana; inoltre, è sempre circolata sotto il titolo impreciso di Cori da "La Rocca". Ora che però l'integrità è restituita, il «libro di parole» appare finalmente nel suo splendore: un tesoro ricco e popolare. Per merito di Marco Respinti, infatti, esce in libreria La Roccia (BvS, Biblioteca di via Senato Edizioni, Milano, 2004; pp.20 €16): integrale il testo, rinnovata la traduzione, completa la fruizione dell'arte poetica messa in atto. Siamo difatti cospetto di una «sacra rappresentazione scritta per essere recitata al Sadler' Wells Theatre dal 28 maggio al 9 giugno 1934 a favore di The Forty-five Churche Fund della Diocesi di Londra».
Un genere e una destinazione, in effetti, inattuali vista l'aria che tirava ai primi del Novecento. Eppure Eliot coglie qui i sublime che fa commistione di teologico e umile, poiché parte da assunti molti saldi: «Dov'è la Vita che abbiamo perso vivendo? Dov'è la sapienza che abbia mo perduto nella conoscenza? Dov'è I conoscenza che abbiamo perduto nel l'informazione? I cicli del Cielo in venti secoli ci portano più lontani da Dio più vicini alla polvere». Sono domande drammatiche, le quali però fanno intuire che le forze eliotiane seguono altri vettori, cioè direzioni diversissime dagli esiti dell'esistenzialismo ateo. Protagonisti dell'opera teatrale sono in fatti due personaggi reali: la debolezza dell'uomo, che si chiama peccato e abita nei cuori di ognuno; la presenza di Gesù Cristo che è con gli uomini tutti i giorni fino alla fine del mondo, nella forma sacramentale della Chiesa. Ossia la Roccia, come la chiama Eliot: la Straniera, la testimone, la visitata da Dio, nella qual è innata la verità. Ma nella lingua inglese Rock è un vocabolo di genere maschile ragion per cui il perno su cui poggia i tutto diviene ancor più evidente: «tu se Pietro e su questa pietra edificherò…» Il latino ci soccorre nel vertiginoso passaggio: Petra-Petrus.
Ancora una volta, per mezzo di un testo in apparenza semplice (è un copione per le scene, destinato a una compagnia filodrammatica) e poco pretenzioso, avviene il miracolo del sublime cristiano mysterium simplicitatis. E le comuni piane parole del volgo londinese tra Ie due guerre, i dialoghi degli Ethelbert, Edwin, Alfred, si fanno annuncio di un Fondamento che non verrà mai meno, a meno che non si rinneghi prima l'umanità dell'uomo, perché là dove non si edificano chiese è impossibile anche costruire case. Nel pieno dell'alienazione totalitaria (quando uscì questo libro a capo della Germania si trovava Hitler e dell'Urss Stalin…) il poeta pone alla platea domande stringenti, quali ad esempio «che vita fate se non fate vita in comune?». Eliot è artista e dunque vede la società nel momento in cui la raffigura, nella sua muta desolazione: «tutti si affannano avanti e indietro con le automobili, esperti delle strade e privi di una dimora stabile. Nemmeno le famiglie si spostano più assieme, ma ogni figlio maschio vorrebbe avere una motocicletta, e le figlie se ne vanno cavalcando sellini casuali».
La voce eliotiana, che è pia e pietosa come il dantesco Virgilio, conclude ripristinando l'eterna verità cristiana nei confronti del mondo: ricorda come ci sia «molto da smantellare, molto da costruire, molto da restaurare», invita a far sì«che l'opera non subisca ritardi».
Donna di terra e di cielo
E invece il cammino dell'uomo nel tempo è costellato di rimandi, di vicoli ciechi, di strade che non portano a nulla, disastrose deviazioni dal corso della giustizia. Domanda Eliot: «avete bisogno che vi si dica che persino le modeste conoscenze di cui vi potete vantare nella società perbene difficilmente sopravvivranno alla Fede a cui debbono il proprio significato?».
Il XX secolo in poesia è essenzialmente questo: spreco e dissipazione, e dunque merito a G.B. Gandolfo e L. Vassallo per la loro nuova incursione nelle terre guaste e gloriose dei poeti, l'antologia dal titolo Donna di terra e di cielo (Ancora, 2004; pp.171, euro 14).
La ricerca, qui, è assai delicata perché riguarda «Maria nella poesia italiana del Novecento» e non esita a leggere nelle pieghe degli scrittori anche più controversi, nelle loro piaghe, l'invocazione alla Madonna: sulla scorta di un breve frammento leopardiano, i poeti ammettono di essere malvagi, ma di non goderne, di essere perciò infelici. È vero che questa vita è breve, ma i mali quaggiù ci riescono insopportabili: per questo il poeta invoca la Madre celeste, «grande e sicura», affinché abbia pietà di tante miserie. Da questo appassionato ex voto scaturisce poi la corrente delle parole dedicate alla Vergine Madre, come un fiume che s'apre a delta e sfocia in mare.
IL TIMONE – N. 42 – ANNO VII – Aprile 2005 – pag. 51 – 52