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«[…] gente che vieta il matrimonio e impone di astenersi da alcuni cibi, che Dio ha creato perché i fedeli, e quanti conoscono la verità, li mangino rendendo grazie. Infatti ogni creazione di Dio è buona e nulla va rifiutato, se lo si prende con animo grato, perché esso viene reso santo dalla parola di Dio e dalla preghiera» (1Tm 4,3-5)
«Chi si preoccupa dei giorni, lo fa per il Signore; chi mangia di tutto, mangia per il Signore, dal momento che rende grazie a Dio; anche chi non mangia di tutto, non mangia per il Signore e rende grazie a Dio» (Rm 14, 6)
«Se io partecipo alla mensa rendendo grazie, perché dovrei essere rimproverato per ciò di cui rendo grazie? Dunque, sia che mangiate sia che beviate sia che facciate qualsiasi altra cosa, fate tutto per la gloria di Dio» (1Cor 10, 30-31)
«Detto questo, prese un pane, rese grazie a Dio davanti a tutti, lo spezzò e cominciò a mangiare» (At 27, 35)
C’è un gesto che una volta era comune nelle famiglie cristiane, qualcosa che era dato come scontato: quello di fare il ringraziamento prima e dopo il prendere cibo. Le formule usate per questa preghiera erano varie. Ce n’è una, di origine monastica, come moltissimi degli atteggiamenti abituali e scontati della nostra civiltà cristiana, che si svolge come un dialogo. Il celebrante dice: «benedicite [benedite]» e tutti i presenti fanno eco ripetendo «benedicite», quindi segue la benedizione. Che significato ha? È come un appello a tutti i presenti perché benedicano il Signore, ma un appello che prende delle dimensioni per così dire “cosmiche”. Il Salmo 103, tutto incentrato sul tema della lode e della benedizione, dice infatti: «Benedite il Signore, angeli suoi, potenti esecutori dei suoi comandi, attenti alla voce della sua parola. Benedite il Signore, voi tutte sue schiere, suoi ministri, che eseguite la sua volontà. Benedite il Signore, voi tutte opere sue, in tutti i luoghi del suo dominio» (Sal 103,20-22). L’appello si estende prima di tutto agli angeli e, dunque, a tutte le opere di Dio. Questo implica che gli angeli sono presenti a questo momento del nostro vivere quotidiano, che saremmo tentati di considerare “prosaico”. Ma se gli angeli sono presenti e partecipano al nostro rendimento di grazie, vuol dire che prosaico non è, anzi, che esso è vicino, vicinissimo, alla preghiera comune e ufficiale della Chiesa, la liturgia. Quando infatti la Scrittura definisce gli angeli, li qualifica proprio come «spiriti liturgici» (Eb 1,14).
I monaci ci hanno insegnato molte cose. Una è proprio quella di “mangiar bene”. Innanzitutto con educazione e ordine. Sono cose a cui siamo abituati, ma è bene che ci chiediamo da dove vengono queste abitudini, così da non lasciarle perdere con facilità. Sono abitudini rituali: mangiamo su una tovaglia, con le posate disposte, in modo non casuale, attorno al piatto. Con a lato un tovagliolo. Sono disposizioni non arbitrarie, ordinate, come in una liturgia. Diciamo che facciamo “colazione”. Ci siamo mai chiesti perché? Perché i monaci non mangiavano guardando la televisione, o mandando messaggi con il telefonino… ma ascoltando una lettura spirituale che, per lo più, era tratta dalle “Collationes” di san Giovanni Cassiano.
È questo uno degli aspetti più interessanti e belli del paradosso cristiano, spesso così trascurato. Per un cristiano certamente mangiare e bere non sono lo scopo della vita. Anzi, il digiuno è una pratica raccomandata da tutta la tradizione. Tuttavia, il prender cibo è per lui qualcosa di particolarmente importante. Da curare quindi, da rendere bello e anche piacevole. È noto che le principali prelibatezze della nostra cucina occidentale hanno una origine monastica: il prosciutto, il formaggio grana, la birra di luppolo, lo champagne, ecc. Certamente non si entrava in monastero per far formaggi o produrre del buon vino, ma per cercare Dio nel silenzio e nella preghiera. Tuttavia, cercando il regno di Dio è venuta questa significativa aggiunta: «Cercate […] anzitutto il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta» (Mt 6,33). Un’aggiunta non casuale, perché le raffinatezze della buona cucina sono un’arte che produce un genere di bellezza “effimera”, ma non per questo meno reale. E la bellezza è via privilegiata verso Dio. I santi ci danno delle importanti conferme. Uno fra tutti: san Francesco. Sappiamo quanto ha praticato nella sua vita la sobrietà del cibo, un aspetto non secondario di “madonna Povertà”, da lui amata e sposata. Eppure, proprio al termine della sua vicenda terrena compie un gesto apparentemente incomprensibile, ma che non è tale alla luce di quanto detto sopra: chiede a una sua penitente, madonna Giacoma de’ Settesoli, di portargli quei dolcetti che lei sa cucinare così bene e che a lui piacciono così tanto.
Il prendere cibo per un cristiano non è cosa da poco. Non può esserlo, perché il suo Creatore si è fatto uomo e si dà in cibo a lui nella santa Eucarestia.
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