«Il Signore è il mio pastore: non manco di nulla. Su pascoli erbosi mi fa riposare, ad acque tranquille mi conduce. Rinfranca l’anima mia, mi guida per il giusto cammino a motivo del suo nome. Anche se vado per una valle oscura, non temo alcun male, perché tu sei con me. Il tuo bastone e il tuo vincastro mi danno sicurezza. Davanti a me tu prepari una mensa sotto gli occhi dei miei nemici. Ungi di olio il mio capo; il mio calice trabocca. Sì, bontà e fedeltà mi saranno compagne tutti i giorni della mia vita, abiterò ancora nella casa del Signore per lunghi giorni» (Sal 23,1-6).
Che cosa vuol dire “pastorale”? Riferito al Magistero, cioè al compito di insegnare con autorità al popolo di Dio, riguarda lo scopo, la funzione propria di questo particolare ministero nella Chiesa. San Giovanni XXIII, nel discorso di apertura del Concilio ecumenico Vaticano II, ha determinato che la forma propria dell’insegnamento di questo Concilio doveva essere “soprattutto pastorale”. Attorno a questa parola si è accesa una battaglia. Le parti avverse, nelle loro punte estreme, hanno convenuto in questo: pastorale vuol dire non dottrinale. C’è stato chi l’ha usata per rifiutare qualunque novità vincolante dell’insegnamento conciliare (definito “soltanto pastorale”), chi invece per avvalorare qualsiasi novità, senza nessun legame con una dottrina determinata (un Concilio “non dogmatico”). Il magistero di san Giovanni XXIII, del beato Paolo VI, di san Giovanni Paolo II, di Benedetto XVI, di Francesco ha sempre insistito che contrappore “pastorale” a “dogmatico” è un grave errore che tradisce le intenzioni dell’assemblea conciliare e va contro sia alla sua lettera che al suo spirito.
Credo che una delle regole di sant’Ignazio “per sentire nella Chiesa” ci possa aiutare a capire più in profondità il senso di questa parola, in sé sacrosanta, che è però diventata, suo malgrado, una parola talismano che può voler dire tutto e il contrario di tutto. Salvare l’autentico significato delle parole è uno dei servizi più preziosi che si possa fare al mondo. Chiesero un giorno a Confucio: che cosa faresti se tu fossi imperatore? “Fisserei il significato delle parole” rispose. Dice dunque sant’Ignazio nell’undicesima regola: «Aver grande stima della teologia [nel testo spagnolo “doctrina”], sia di quella detta positiva che di quella detta scolastica. Perché, come i santi dottori antichi Gerolamo, Agostino, Gregorio, ecc. vollero soprattutto muovere gli animi ad abbracciare l’amore e il servizio di Dio, così fu proprio del beato Tommaso, di Bonaventura, del Maestro delle sentenze e degli altri teologi più recenti di insegnare e definire più esattamente i dogmi necessari alla salvezza, come era conveniente ai loro tempi e a quelli successivi, al fine di confutare gli errori delle eresie. Infatti questi dottori, essendo posteriori nel tempo, non solo hanno l’intelligenza della Scrittura e si servono degli scritti degli autori antichi, ma, con l’influsso della luce divina, utilizzano con abbondanza anche i decreti dei concili e dei vari documenti della santa Chiesa a vantaggio della nostra salvezza» (Esercizi Spirituali, n. 363).
Qui Ignazio ha presente due modi di insegnare, di presentare la stessa verità di Cristo, lo stesso Vangelo; uno quello dei dottori antichi, i Padri della Chiesa, l’altro dei dottori medioevali, gli scolastici. I Padri sono per lo più vescovi e il loro modo di insegnamento, profondamente legato alla Scrittura, si esplica soprattutto nel contesto della liturgia, sia mediante
omelie che mediante spiegazioni delle cerimonie stesse (si pensi alle Catechesi Mistagogiche di san Cirillo di Gerusalemme). Il modo d’insegnare degli scolastici è più sistematico, fa un ampio uso della logica e dei documenti del Magistero della Chiesa. Mentre i Padri mettono il loro impegno principale nel suscitare l’amore e il servizio di Dio, gli scolastici si impegnano a definire con più precisione la dottrina e a confutare gli errori.
Sant’Ignazio dice che bisogna lodare entrambi i modi di insegnamento, senza metterli in dialettica.
Così dobbiamo fare noi: il modo pastorale (cioè quello patristico) usato dal Vaticano II non vuole, né deve essere messo in dialettica con il modo dogmatico. Ci vogliono entrambi. San Giovanni XXIII ha capito che in questa fase della storia della Chiesa ci vuole una nuova evangelizzazione, in cui dobbiamo soprattutto “mostrare” la bellezza e la verità del Vangelo di Gesù Cristo con le parole e con la nostra vita. Di quel Vangelo che è Gesù Cristo, il quale con la sua vita, morte e resurrezione ci ha rivelato la grandezza ineffabile dell’amore di Dio. E gli errori? Forse che non ci sono più? Ci sono, ahimè, e più di prima! Ma il primo annuncio non è fatto soprattutto di condanne. Una volta accolto il Salvatore, ha senso allora essere aiutati a eliminare con precisione gli errori che deturpano la vita nuova che ci è stata donata. Non è un problema di dialettica, ma di ordine. Corinto era una grande città (circa 200.000 uomini liberi e 400.000 schiavi), famosa per la sua immoralità (dare a una donna della “ragazza corinzia” voleva dire insultarla volgarmente).
San Paolo scrive ai cristiani di Corinto lodandoli perché hanno accolto il Vangelo:
«Rendo grazie continuamente al mio Dio per voi, a motivo della grazia di Dio che vi è stata data in Cristo Gesù, perché in lui siete stati arricchiti di tutti i doni, quelli della parola e quelli della conoscenza » (1Cor 1,4-5). Poi però corregge i loro
errori, che non erano da poco: «“Tutto mi è lecito!”. Sì, ma non tutto giova. “Tutto mi è lecito!”. Sì, ma non mi lascerò dominare da nulla. “I cibi sono per il ventre e il ventre per i cibi!”. Dio però distruggerà questo e quelli. Il corpo non è per l’impurità, ma per il Signore, e il Signore è per il corpo» (1Cor 6,12-13).
Pazientemente, ma profondamente, li istruisce sul valore della sessualità e sui motivi per combattere l’impurità. In che cosa consiste il Magistero dei vescovi, successori degli Apostoli e del Papa, successore di Pietro? Nel rendere presente oggi nella Chiesa l’autorità di Cristo buon pastore. â–
Il Timone – Dicembre 2014
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